Giornata della Memoria, Edith Bruck: «Può succedere di nuovo in tutta Europa»

In occasione della Giornata della Memoria, Domenica In ha raccolto la testimonianza di Edith Bruck, la scrittrice e poetessa italo-ungherese sopravvissuta da bambina all'Olocausto. Ospite di Mara Venier, Edith Bruck ha spiegato: «Non si può spiegare bene cosa sia stato, parlare di atrocità è riduttivo. Non riesco ancora a guardare certe immagini, dopo così tanto tempo. Può succedere ancora, non solo in Italia, ma in tutta Europa: il rischio è alto e ci sono presentimenti terribili anche oggi».

Eleonora Abbagnato: «Sì alla danza sulla Rai. Balzaretti? Non volevo un calciatore e non volevo un biondo...»​

La vicenda personale di Edith Bruck, sopravvissuta insieme ai fratelli a varie deportazioni e ai lager che uccisero i genitori: «Tutto iniziò in Ungheria, nel 1942, ma già c'erano delle leggi razziali e il clima era invivibile. C'erano segnali di fascismo e intolleranza: ci sputavano nell'acqua, spaccarono il cranio a mio fratello. Vivevamo nel ghetto, vennero alcuni fascisti ungheresi che ci presero e ci costrinsero ad abbandonare la nostra casa».

Edith Bruck ricorda così l'inizio della deportazione: «Ci avevano radunati prima di partire. Ricordo che c'era un giovane gendarme tedesco, avrà avuto al massimo 25 anni, che calpestò una medaglia di mio padre, umiliandolo e prendendolo a schiaffi. In quei giorni si sviluppò uno strano senso di comunità: un ebreo benestante, ad esempio, donò un paio di scarpe a mio padre, che non ne aveva dopo il rastrellamento. In quel momento così tragico eravamo tutti uguali, non c'erano differenze di classe».

Altrettanto drammatico è il ricordo di quando gli ebrei furono portati per la prima volta in un lager: «Ci misero in fila, c'erano due direzioni: a sinistra, dove c'erano le camere a gas, e a destra, dove c'erano i lavori forzati. Mio padre fu mandato a destra, mia madre a sinistra e arrivati all'ultimo soldato, questo mi ha presa e mi ha detto di andare a destra. Io però non volevo lasciare mia mamma, ma i soldati colpirono sia me che lei con il calcio di un fucile e mia mamma mi disse: "Ubbidisci". Lei aveva capito cosa stava accadendo, io non l'ho più vista: il mio ultimo ricordo di lei è riversa a terra, ferita dalle botte dei soldati».

Edith Bruck ha poi continuato a raccontare: «Come si sopravvive a una simile disumanità? Bisogna essere fortunati, anche nel ritrovare l'umanità. Ero finita a lavorare in cucina, aiutavo il cuoco e lavavo piatti e stoviglie. Mangiavo ciò che potevo ricavare da frutta e verdura sbucciate, oppure raschiavo il fondo dei barattoli per mangiare qualcosa. Poi capitò che il cuoco mi chiese: "Come ti chiami?", lì capii che ero ancora una persona, perché il lager ci aveva annichiliti. Quel cuoco non era un uomo, ma un messaggio di Dio: anche quello mi aiutò a trovare la forza per andare avanti». Edith Bruck ha poi aggiunto: «Chi sopravvive a certe cose non può avere una vita normale, sarà segnata per sempre». Le fa eco Mario Venezia, figlio di Shlomo, un romano deportato dopo il rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943 e sopravvissuto alla Shoah: «Mio padre non diceva nulla, noi vedevamo quel numero tatuato sul braccio e facevamo mille domande, ma solo quando fummo più grandi ci spiegò tutto.

Lo accompagnai in uno dei tanti viaggi organizzati dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio ad Auschwitz, ricordo che prima e dopo i viaggi era molto provato. Però quando si trovava lì aveva una forza comunicativa straordinaria, sapeva trasmettere il suo ricordo ai ragazzi che partivano con noi. Non smettiamo di testimoniare ciò che è accaduto ai ragazzi, ma c'è un'intolleranza molto diffusa soprattutto tra i meno giovani».


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 30 Giugno 2021, 16:27
© RIPRODUZIONE RISERVATA