Coronavirus e quarantena, come lo racconteremo ai nostri nipoti: emozioni, sogni e paure. Parlano Bruno Vespa, Bugo e Gabriele Corsi

Coronavirus e quarantena, come lo racconteremo ai nostri nipoti: emozioni, sogni e paure, le testimonianze di Vespa, Bugo e Corsi

di Fausto Moretti
Fra alcuni anni, tanti o pochi, toccherà a noi il compito di raccontare il Covid 19 alle future generazioni. I nostri figli e i nipoti che verranno al mondo potranno vivere attraverso i nostri occhi, attraverso le nostre parole, un racconto di cui avranno sentito parlare a scuola o dagli amici, esattamente come noi abbiamo vissuto con la voce dei nostri nonni gli orrori della guerra, o magari per i più giovani, lo sbarco dell’uomo sulla luna. Ciascuno di noi racconterà un pezzettino di vita, il “suo” pezzettino. E la cosa straordinaria è che in questa pandemia, un evento capace di accomunare quasi tutti gli abitanti del pianeta, ogni abitante racconterà il “suo” vissuto, il mondo visto con i suoi occhi, diverso da tutti gli altri. Le difficoltà economiche, gli amori lontani, la perdita di un parente, i sacrifici di un medico o di un infermiere, la solitudine. Ciascun nonno o genitore racconterà il ricordo che gli è rimasto addosso, e sarà sicuramente un ricordo fatto di emozioni, di gioia o di paura. 
Il mio ricordo immediato di questi due mesi, ne sono certo, sarà la vista su un albero, un tiglio ben più alto dei palazzi intorno e che si erge davanti alla finestra. Quando è iniziata la quarantena il tiglio era ancora spoglio e grigio. Oggi è rigoglioso, pieno di foglie, pieno di voglia di vivere. Sui rami e sugli alberi vicini osservo e fotografo gli animali che non conoscono il coronavirus, i merli e le cornacchie, i pappagalli in amore ed i passeri. E li fotografo come se mi trovassi dentro un capanno di osservazione sul bordo di un lago, uno di quei capanni di legno e paglia, che ti permettono nel silenzio totale di nasconderti alla vista del mondo. Forse, se i ricordi non si saranno diluiti nel tempo, racconterò ai miei nipoti che lavoravo da casa, che stavo in fila per fare la spesa, che le giornate talvolta sembravano lunghe infinite. 
Ma quello di cui sono sicuro è che gli racconterò come ogni giorno mi sedevo sul balcone di casa e guardavo fuori, respiravo un’aria di Roma che di colpo sembrava pulita; «era il mio modo di muovermi» gli dirò, «il mio modo di avere un senso di libertà fuori dalle mura domestiche». Respirare l’aria che nessuno poteva fermare. Viaggiare con la memoria in attesa di viaggiare con il corpo. Aggiungerò sicuramente che alcuni giorni i ricordi andavano alle passeggiate in montagna, distese verdi che meglio di qualunque altro luogo danno un senso di libertà; altri giorni la mente mi riportava a una passeggiata al centro di Roma, a un caffè in qualche bar da cui si può vedere una piazza più o meno famosa, ad un treno frettoloso per Milano. E forse gli confiderò che alla fine di ciascun ricordo si attivava un sogno che iniziava con «quando il virus sarà sconfitto e potrò uscire voglio andare…». Ecco, fra alcuni anni, quando racconteremo tutto questo a un nipote, tireremo le somme anche di quali e quanti sogni abbiamo saputo poi vivere. Perché sono sicuro che ciascuno di noi in questi giorni ha immaginato, sognato, fantasticato. Sapremo dire solo tra qualche anno se questa esperienza ci ha cambiati davvero, se “dopo” siamo stati più attenti alle nostre esigenze, ai nostri desideri, alla nostra qualità di vita o se tutto è tornato come prima.

IL RACCONTO DEI VIP A LEGGO 
BRUNO VESPA


Non so se avrò, come spero, nipoti. Ma mi porterò dietro un rimpianto e un desiderio maturati nei mesi del lockdown. Il rimpianto è di non essere andato a Venezia il weekend prima della chiusura. Non la vedrò più così deserta. 
Il desiderio è quello di folla: non ho fretta di passeggiare, ma di entrare in un ristorante pieno e in un teatro esaurito. Significa desiderio di normalità. 
Per il resto credo che rimpiangerò il tanto tempo che ho trascorso a casa in questi mesi, pur muovendomi quasi ogni giorno per il lavoro in televisione. 
Riprendere libri messi da parte, scrivere in pace con poche interruzioni esterne, andare alla ricerca in cantina di vecchie annate. In due mesi ho assaggiato 92 vini diversi: qualche delusione, molte fantastiche sorprese. 
Ho rallentato i tempi della vita e vedo come una minaccia gli appuntamenti delle prossime settimane. 
Riuscirò a difendermi?

GABRIELE CORSI


Caro Nipote che non sei ancora nato (e che non so ancora se e quando nascerai), lascia che ti racconti di quel periodo in cui tutti, quasi tutti, siamo rimasti in casa per più di due mesi.
All’inizio la voglia di sconfiggere questa malattia invisibile e bastarda, che si è portata via tantissimi dei nostri nonni, ci è sembrata qualcosa di epico. L’abbiamo chiamata, spesso, una guerra. E questo ci metteva quasi in pari con i nostri di nonni che, una guerra, una guerra vera, l’avevano combattuta. C’era una specie di euforia... si usciva sui balconi a cantare, pensavamo «ne usciremo migliori». Alla fine, la cosa che si rilevò più giusta, fu una frase che proprio mio nonno mi aveva detto: «La guerra è un setaccio, divide un uomo vero dal pagliaccio». Ed è quello che accadde. Le persone perbene si davano da fare. Le altre no. In tanti, quasi tutti, dicevano: «Andrà tutto bene». In pochi pensavano: «Andrà tutto bene se staremo tutti bene».
Dormivamo poco e male. Sognavamo cose orribili e strane. E la mattina ci svegliavamo, almeno io, sempre con lo stesso pensiero: «Ero libero e non lo sapevo».
Ricorda quello che ti dice nonno. Ricorda, ogni secondo della tua vita, che sei libero. Non aspettare, come avvenne per noi, di capirlo quando quella libertà ci fu tolta. Accadde per poco, la lezione durò per sempre. 

BUGO


Io, a casa Bugatti, sto bene: con mio figlio di tre anni e mezzo, con mia moglie. Ho staccato i social per due giorni, per una forma di rispetto nei confronti del numero impressionante dei morti Covid. Ma da sognatore e idealista che cerca di infondere il senso di rivalsa, non smetterò di cercare di trasmettere forza. E come cantautore di creare emozioni. 
Mi Manca (feat. Ermal Meta dal disco Cristian Bugatti, ndr), ad esempio, è il mio augurio al mondo. Penso a chi ha perso il lavoro, a chi non ha il pc per studiare perché non ha i soldi. Penso a mio figlio, e a tutti i bambini, privati della socialità che li fa diventare grandi. Appena aprirò la porta di casa, sogno di riportarlo a giocare fuori. Si impara a vivere stando al mondo, non solo con mamma e papà. 
Cercherò di raccontargli questo momento parlandogli di come un virus abbia sconvolto la razza umana, come successo già nella storia. Dobbiamo guardare avanti, trovare opportunità. È il mio modo di essere, di rapportarmi alla vita. A lui insegnerò l’attaccamento alla vita, alle ambizioni. Just for one day/ We can be Heroes, parafrasando Bowie. Non si nasce eroi, lo si diventa. E chiunque, oggi più che mai, può approfittare di diventare migliore.
Ultimo aggiornamento: Venerdì 8 Maggio 2020, 14:53
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