Biagio Antonacci si racconta: «Il mio disco più coraggioso. Rimpianti? Non avere fatto un tour all'estero»

Il cantautore pubblica oggi L'inizio, il suo ultimo album. Tra le firme il figlio Paolo, Michele Canova e Placido Salamone, suoi collaboratori storici. Ma anche Davide Simonetta e Zef.

Biagio Antonacci si racconta: «Il mio disco più coraggioso. Rimpianti? Non avere fatto un tour all'estero»

di Rita Vecchio

Chiamasi metamorfosi o, se si preferisce, fascino del cambiamento. Biagio Antonacci aspetta i 60 anni, pubblicando "L'inizio", disco che esce domani, e dichiarandosi un accanito fautore di ciò che si modifica. Ed è con la musica, che resta il suo veicolo di comunicazione preferito, che ne fa quasi un «trattatelo filosofico». Sono 15 brani che dissertano sul tempo, sulla libertà, sull'ego smisurato e «sul "de-vertere"», e cioè sull'uscire dallo schema, qualunque esso sia. Il titolo è di Giorgio Poi che scrive l'unico brano del disco non firmato da Antonacci (un po' come fu con "Le Veterane" scritta per lui da Paolo Conte). «"L'inizio" è consapevolezza. "L'inizio" è finalmente quello che voglio essere e lo dedico al mio figlioletto Carlo di 2 anni», dice sfogliando una manciata di pagine scritte a mano. 


Biagio, bentornato. E questi appunti? Ha voglia di racconto? 
«Alla bella età dei 60 (mai e poi mai avrei immaginato di pronunciare una frase simile), si fa anche questo (ridendo, ndr). Pure uno come me, che ha sempre preferito far parlare la musica al suo posto». 


"L'inizio" in che momento arriva? 
«Gli anni contano, ma i 30 di carriera pure. Il successo per un artista è scegliere e io mi trovo esattamente qui. È un momento di accettazione, in cui voglio gestire meglio il presente, con più coraggio verso il futuro e con meno malinconia del passato». 


Disco della maturità? 
«O quello dell'immaturità, scelga lei. Oggi ho più cuore e meno mente. Se avessimo cuore saremmo davvero liberi, la mente è stata allenata per seguire un percorso incanalato. E' la struttura sociale che lo pretende. Essere liberi significa fare come i bambini, senza filtri e senza i paletti dello status quo, o non governato dall'ego eccessivo». 


Perché, Antonacci non ha mai avuto un ego smisurato? 
«Eccome se l'ho avuto. Quando arrivi da Rozzano e a un certo punto la tua parola comincia ad avere peso, l'ego ti fa esplodere, trasformandosi in te in un Dio. Ed è così che fai grandi cazzate. Oggi so cosa non fare. E soprattutto, chi è attorno a me, tutta la mia squadra, mi ammonisce, alzando in alto un bel cartellino rosso». 


Rozzano, terra di Biagio e di rapper. E se iniziasse a fare musica oggi? 
«Non sarei un rapper. Sono più romantico, chitarra e voce, alla Bob Dylan. Sarei un Calcutta, uno che usa le parole dicendo le cose in modo nudo e crudo, ma con un livello intellettuale elevato». 

Nello scenario musicale attuale non si fa?

«Il linguaggio è figlio di retaggio culturale. Ho cambiato una frase in una canzone, da "fotte il tempo" a "ruba". Ha lo stesso significato e nonostante possa sembrare una parola vecchia o "stradale", credo sia più pulita.  Dobbiamo fare attenzione. Non è necessario usare testi aggressivi o violenti per dire la verità. E' la scuola di Pino Daniele: prima faceva suonare la frase e poi dava un significato. Gazzelle, Colapesce Dimartino, Ultimo: sono loro la faccia del nuovo cantautorato, sono giovani senza essere vecchi». 


Giorgio Poi le ha scritto che «si resta vivi finché si ha l'entusiasmo per iniziare qualcosa». E lei, l'entusiasmo, lo ha mai perso? 
«Non l'ho mai perso.

Ammetto, però, che mi sono addormentato un po', mi sono accontentato del successo». 


Quando? 
«Dopo "Mi fai stare bene" e "Convivendo", intorno agli anni Duemila. Mi sono impigrito, ho passato ore senza dire niente. Senza pensare niente. Senza far girare il cervello». 


Ha rimpianti? 
«Quello di non avere fatto un tour all'estero, sono l'unico che non l'ha fatto». 


E nella vita personale? 
«Uno dei più grandi è il non avere mai detto a mio padre "ti voglio bene". Con i miei tre figli, vorrei che non ci fossero parole non dette». 

Nei testi del disco c'è l'amore ma ci sono anche parole che richiamano la guerra. E poi c'è Anita Garibaldi.

« E' l'esempio della libertà della donna. Sa essere madre, amante, sa combattere. L'amore di cui canto è quello che ha il coraggio di lasciare andare, l'opposto di quanto accade nella cronaca nera di questi anni dove protagonista è la follia del controllo e la perfidia dei femminicidi. "Confine", "attaccare", "mine", "regime", sono termini non solo politici, ma anche morali. Poi c'è anche da dire anche che le vittorie ti accontentano, le delusioni ti fanno crescere».

Le ne ha avute tante? 

«Ne ho avute poche, perché sono uno che non si dà totalmente. Non sono arido, ma di carattere sono un diffidente. Mi sono più auto deluso, che essere rimasto deluso da qualcun altro». 

La davano in gara al Festival

«E invece, no. Amo Sanremo e ci ritornerò. Come conduttore, come big o come direttore artistico. Ecco, come direttore sarei pronto anche domani». 

Che pensa di Amadeus?

«Ha fatto diventare il Festival una gara dove ti affacci con meno paura. Nel mio ’93 (in gara con " Non so più a chi credere", ndr) c’era una tensione da fare paura. Nell’88 (prima partecipazione con "Voglio vivere in un attimo", ndr), ero un ragazzino. Non sapevo manco dove mi trovassi, l'ho vissuto con incoscienza». 


Lei parla tanto di libertà, ma è davvero libero? 
«Liberi non lo saremo mai. Se libertà è sinonimo di consapevolezza, allora sì. E' il più grande dono dell’essere umano». 


In questi trent'anni, è stato più frainteso o più compreso? 
«Frainteso, ma perché spesso il primo a non essere chiaro ero stato proprio io. E faccio mea culpa».


Ultimo aggiornamento: Giovedì 11 Gennaio 2024, 08:37
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