Alessia Pifferi, la rabbia della sorella: «Bastava una telefonata per salvare Diana»

A processo con l'accusa di omicidio per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana di soli 18 mesi

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«Lei si difende, per lei la colpa è sempre di qualcun altro, ma spero che sia davvero pentita di quello che ha fatto». Lo afferma Viviana, sorella di Alessia Pifferi a processo con l'accusa di omicidio per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana di soli 18 mesi.

 

Le parole della sorella di Alessia Pifferi

«Non voglio riallacciare i rapporti con lei, io ripenso a quella bambina lasciata nel lettino come una bambola, quello che ha detto oggi era molto mirato diceva molti 'non ricordo'» dice al termine del lungo interrogatorio della 37enne alla sbarra. «L'amore di un figlio va oltre qualsiasi cosa, invece lei ha chiuso la porta e l'ha lasciata sola. Bastava una chiamata per salvare Diana, lei non ci ha neanche chiamato dopo» chiosa la sorella che indossa una maglietta con la foto della nipote e che non perde una sola udienza del processo in cui è parte civile.

Le parole in aula di Alessia Pifferi

«Ho lasciato Diana sola pochissime volte, non ricordo quante e non è mai successo niente». L'ha abbandonata per fare la spesa, ma anche per trascorrere interi fine settimana con il compagno, come avvenuto dal 2 giugno al 20 luglio del 2022. Alessia Pifferi non tradisce nessuna emozione nel raccontare come e quando ha trovato sua figlia di 18 mesi senza vita nel lettino di casa a Milano.

«Le lasciavo due biberon di latte, due bottigliette d'acqua, del teuccio», bottiglie aperte da lei, e sebbene «ero preoccupata di lasciarla sola» l'amore per il compagno ha vinto su quello per la piccola.

Il 14 luglio, intorno alle 19, la lascia per andare dall'allora fidanzato, a cui dice che la piccola è al mare con la sorella, ma il giorno dopo non torna a casa e non lo farà fino al 20 luglio, sebbene lunedì 18 è a Milano per impegni di lavoro di lui. «Il giorno dopo non sapevo come tornare a Milano perché i soldi erano quelli che erano (in aula ammette già di avere i contanti spesi il 20 luglio per tornare in via Carlo Parea, ndr), l'intenzione era di rientrare l'indomani infatti ho lasciato la finestra aperta della camera. Se avessi chiesto a lui di accompagnarmi mi avrebbe risposto che non ero il mio ncc (autista, ndr)». Poi confessa che quel lunedì 18 «ho pensato a mia figlia, ma avevo paura di lui, di farlo arrabbiare» dopo un litigio in strada per un banale caffé.

«Volevo tornare da mia figlia, volevo chiederlo di portarmi a casa ma ero spaventata dalle sue reazioni» e quando il 20 luglio da sola varca l'uscio della porta per Diana è troppo tardi. Era morta di stenti con accanto quel biberon che la madre, pronta a riallacciare i rapporti con la famiglia, le aveva preparato. «Ero molto legata a Diana, era una bambina che piangeva pochissimo, non mi staccavo mai da lei» tentando quasi di far ricadere sul compagno la colpa di aver abbandonata la piccola di 18 mesi. «A mia figlia non ho dato gocce di nessun genere» spiega infine nel lungo interrogatorio in aula. Vicino alla culla dove è stata trovata la piccola era stata trovata una boccetta dell'ansiolitico 'En' (l'autopsia ha escluso il consumo), confezione che sarebbe stata portata da un uomo con cui l'imputata aveva una relazione perché «diceva che le gocce gli serviva a dormire». L'imputata ammette anche aver avuto tre rapporti sessuali a pagamento - «mia figlia era nel lettino e la porta era chiusa» - per racimolare dei soldi per poter regalare un giro in limousine al suo compagno - «pensavo di sposarmi» - e di inviare foto della piccola ma non per soldi.


Ultimo aggiornamento: Martedì 19 Settembre 2023, 15:34
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