Tour de France, l'analisi di Chiappucci: «Ciccone in maglia a pois è stato grande, ma il ciclismo italiano deve crescere»

Claudio Chiappucci, per tutti ancora oggi “El Diablo”, in maglia a pois sugli Champs-Élysées nel 1991 e nel 1992

Tour de France, l'analisi di Chiappucci: «Ciccone in maglia a pois è stato grande, ma il ciclismo italiano deve crescere»

di Massimo Sarti

Giulio Ciccone ha portato domenica la maglia a pois di miglior scalatore del Tour de France a Parigi. Era un suo obiettivo, lo aveva dichiarato anche a Leggo prima dell'inizio della Grande Boucle. Le gesta del 28enne abruzzese della Lidl Trek hanno richiamato le imprese di chi fece lo stesso 31 (e 32) anni fa. Abbiamo parlato con Claudio Chiappucci, per tutti ancora oggi “El Diablo”, di Uboldo (Varese), a pois sugli Champs-Élysées nel 1991 e nel 1992. Ma non solo: tre podi al Giro d'Italia (consecutivi, con una tappa vinta), tre al Tour (consecutivi, con tre frazioni conquistate), una Milano-Sanremo (nel 1991), due Giri del Piemonte, solo per citare i principali successi di un corridore capace con la sua combattività di scatenare la fantasia di tifosi e appassionati di ciclismo.

“El Diablo” Chiappucci, le è piaciuto il Tour de France 2023?

«È stato un Tour molto battagliato, diverso da altri percorsi, con tappe brevi e tante montagne. Per la maglia gialla è stato molto a senso unico, con i due al di sopra di tutti. Praticamente sono stati due Tour: uno di Vingegaard e Pogacar, l'altro del resto del mondo».

Cosa pensa della maglia a pois di miglior scalatore conquistata da Giulio Ciccone? Le è un po' dispiaciuto, tra virgolette, aver perso il primato dell'ultimo italiano ad averla indossata a Parigi?

«Le cose sono fatte per essere battute e migliorate. In questo ciclismo moderno Ciccone è riuscito ad imporsi per una maglia prestigiosa e sono contento per lui. Rispetto alle mie sono tempi diversi e non sono paragonabili. Però dopo 31 anni aver ripreso la maglia a pois resta una grande soddisfazione».

L'impresa di Ciccone ha fatto molto riparlare delle sue maglie a pois del 1991 e del 1992. Che cosa le piace di più ricordare di quei Tour?

«Per me la maglia a pois era un elemento motivante per restare in corsa, in classifica generale e per vincere le tappe, tra cui quella storica del 1992 (18 luglio, ndr) al Sestriere, conquistata proprio in maglia a pois. Parentesi: mi piaceva di più la vecchia maglia con i pois rossi più grossi, secondo me si notava di più nel gruppo anche se adesso si possono mettere anche su pantaloncini, casco, guanti, ovunque. Allora era permessa solo la maglia».

Lei in quegli anni salì tre volte sul podio di Parigi e vinse tre frazioni. Ciccone per concentrarsi sulla maglia a pois ha dovuto praticamente rinunciare all'altro sogno di primeggiare in una tappa. È proprio un ciclismo diverso...

«Sì, lo ripeto, è così. A me la maglia a pois e non solo dava la carica per tutto il resto, per stare sempre davanti, per non lasciarmi scappare le fughe per arrivare al traguardo, come feci quel giorno al Sestriere».

Ciccone al Tour ha tenuto alto il nome del ciclismo italiano che aveva presentato solo sette elementi alla partenza dai Paesi Baschi...

«È quello il problema.

A livello italiano c'è da lavorare, capire, come mai così pochi corridori al Tour. La maglia a pois dà lustro, ma è un'altra storia. Mancano le vittorie di tappa al Tour. E per la classifica siamo ancora più lontani».

Non vinciamo al Tour dal 2019 con Vincenzo Nibali. Lei ha già ricordato la sua cavalcata mitica verso il Sestriere, dopo sei ore e 200 chilometri di fuga...

«Erano frazioni più lunghe, oggi sono più brevi e più battagliate. E l'alta media oraria lo sta a dimostrare».

Ha nostalgia del “suo” ciclismo?

«Non è questione di nostalgia, è questione di piacere. Alla gente piace ed è sempre piaciuto il ciclismo d'istinto, di cuore, con i corridori che vanno in fuga ed arrivano al traguardo. Poi si è persa la rivalità: al di là di Pogacar e Vingegaard non c'è molto. E in più la si vede solo al Tour o poco altro, mentre le nostre rivalità duravano tutto l'anno».

Celebre fu il suo dualismo con Bugno, senza dimenticare Indurain...

«Si correva l'uno contro l'altro anche al Giro d'Italia (spesso negli stessi anni dei Tour de France, ndr) e nelle grandi classiche: questo faceva la differenza».

Ha rimpianti nella sua carriera da corridore? Forse il secondo posto al Mondiale di Agrigento nel 1994, quando scappò il francese Leblanc verso l'iride...

«Rimpianti non ne voglio avere. Perché ho dato tanto al ciclismo. Ho corso dalla mattina alla sera, sempre. Mi sono distinto anche per questo ed è per questo che la gente mi vuole bene pure oggi. Ho voluto essere sempre me stesso, a volte ci ho rimesso delle grandi corse, a volte ho fatto grandi imprese. Certo, il Mondiale ci poteva stare, mi è mancato, ma credo di aver sempre dato il massimo».

A proposito di Mondiale su strada, il 6 agosto a Glasgow (Scozia) gli italiani non partiranno certo tra i favoriti...

«Sulla carta è così, ma nelle corse di un giorno può sempre succedere di tutto. Ci saranno però i migliori e sarà tutto più difficile».

Van Der Poel e Van Aert su tutti?

«Non solo loro. C'è Pedersen, che quando vinse il Mondiale non se l'aspettava nessuno. C'è Philipsen (belga come Van Aert e il campione del Mondo in carica Evenepoel, ndr) imbattibile in volata, ma capace anche di fare secondo alla Roubaix. Con gli italiani c'è da lavorare molto».


Ultimo aggiornamento: Martedì 25 Luglio 2023, 05:30
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