Stefano Palatresi, colonna sonora de "I fatti vostri": «Che nostalgia per i tempi folli con la banda notturna di Arbore»

Il musicista dirige il gruppo del programma quotidiano di Rai2. Da Cerreto Guidi in Toscana e un diploma in pianoforte alla popolarità con "Quelli della notte"

Stefano Palatresi, colonna sonora de "I fatti vostri": «Che nostalgia per i tempi folli con la banda notturna di Arbore»

di Totò Rizzo

Nonostante quella faccia da eterna birba, Stefano Palatresi è apparso ogni mattina nella trasmissione più domestica, familiare, vecchio stile della tv, “I fatti vostri” su Rai2 che chiude la stagione venerdì prossimo. Vero che ha 62 anni, che da oltre trenta ha «messo la testa a posto», che il suo curriculum ne certifica già 40 di carriera, ma la sua immagine è sempre quella dell’ allegro scavezzacollo nel pazzo serraglio di “Quelli della notte” di Arbore, anno di grazia 1985.

Dica la verità, Palatresi: la faccia da “mimmino” furbetto è stata un vantaggio o una condanna?

«Se dicessi una condanna sarei ingeneroso con madre natura e con mia mamma. È stata un vantaggio, eccome: la faccia simpatica va bene per tutto, nei rapporti umani e in quelli professionali, un bel sorriso fa scattare subito l’empatia. In un lavoro come il mio, poi, dove anche l’immagine conta, ancora di più. Ed è stata importante anche con le donne, almeno nel periodo avventuroso che ho passato fino ai 30 anni, poi mi sono molto calmato».

Per uno che ha “fatto il pianobar” – come lei cantava a Sanremo con Di Capri e Proietti – dev’essere stata dura svegliarsi di buon mattino per essere pronto ad andare in onda alle 11.

«Prima i night club, poi il pianobar, e ancora le tournée con le orchestre: per tanti anni sono andato a letto a notte fonda. Con l’età gli orari sono cambiati. Non ho grande nostalgia per quel fare l’alba prima a Firenze, poi a Roma, dopo ancora in giro per il mondo. Adesso mi va bene così».

Orari tremendi, quelli.

«Si cominciava a suonare mentre venivano serviti  i Martini con l’oliva alle otto di sera e si staccava con l’ultimo brano alle 4 del mattino».

Bella gavetta, night e pianobar.

«Palestra fondamentale, utilissima dal punto di vista professionale. Una decina d’anni. Sempre sul pezzo, musicale ovviamente. Quel microcosmo di gente in quei piccoli spazi dovevi tenerlo sulla corda tutta la serata, non per niente le orchestre si chiamavano attrazioni. Poi i night chiusero, liquidarono i gruppi, i pianisti dovettero arrangiarsi tra tastiera e microfono, infine arrivarono le discoteche e i deejay. Sempre più al risparmio, insomma».

I trucchi per tenere alta la tensione di serate così lunghe?

«Beh, i night, ad esempio, erano frequentati soprattutto da coppie o da uomini soli e per questi ultimi c’erano le entraîneuse. In repertorio Bruno Martino, Fred Bongusto, Franco Califano. Molti balli lenti. Andavano forte i successi francesi, metti “Ne me quitte pas”. A pensarci bene, la famosa parodia di Proietti non era molto distante dalla realtà».

Nei pianobar invece?

«Lì l’obiettivo era coinvolgere. Dovevi studiare una playlist, si direbbe oggi, in crescendo: alla fine tutti dovevano cantare in coro preferibilmente intorno al pianoforte. Da zero a cento gradi. I pezzi che tiravano di più erano “Riderà” di Little Tony e “Una ragazza in due” dei Giganti. “Riderà, riderà, rideràààààà” oppure “Mai le diròòòòò”: se l’acuto del coro partiva, era fatta».

Uno come lei diplomato in Conservatorio è stato mai tentato dalla musica classica, ha mai sognato una carriera da concertista?

«Quando io frequentavo il Conservatorio c’era un atteggiamento un po’ puzzettone nei confronti della musica leggera. Adesso il pop e il jazz si studiano lì dentro. Sì, forse c’è stato un momento in cui ho sognato una sala da concerto e un pianoforte tra Mozart e Chopin ma in realtà fin da ragazzo ho sempre avuto voglia di cantare. Per me la forma-canzone è sempre stata il massimo: c’è una melodia, una storia da raccontare… arte altissima».

E come mai un giovane pianista di Cerreto Guidi, 35 km. da Firenze, arriva a Roma, in tv, da Renzo Arbore?

«Un’estate dei primi anni ’80 lavoravo a Porto Rotondo e mi notarono Antonio & Marcello che erano i nomi di punta della Càbala, famoso locale romano. Così nell’83 mi proposero una sostituzione perché dovevano andare per la prima volta a Sanremo. La Càbala era frequentata da attori, cantanti, gente della tv e tra questi c’era Arbore.

Quando Renzo nel 1984 chiamò Antonio & Marcello per la trasmissione che stava preparando in tv  per i 60 anni dalla radio, “Cari amici vicini e lontani”, e doveva formare un gruppo musicale, che poi si chiamò la Premiata Orchestra I Senza Vergogna, i due portarono anche me. Da lì arrivai anche a “Quelli della notte”».

Esperienza pazzesca, immagino.

«È l’aggettivo giusto. Renzo è quel genio che conosciamo. Il programma nacque in sordina. Capimmo che qualcosa stava succedendo perché dopo una sola settimana, quasi ogni pomeriggio, alle prove, arrivavano i giornali per i servizi fotografici. In un mese e mezzo fu un successo enorme e dopo l’ultima delle 32 puntate, quando uscimmo dagli studi di via Teulada, c’era una folla da stadio per strada a festeggiarci. Lì ci chiamavamo New Pathetic Elastic Orchestra. Siamo stati travolti dalla popolarità, qualcuno si è lasciato andare, per me invece è stato un vaccino per non perdere lucidità, per restare coi piedi per terra».

La lezione di Arbore?

«Mettere in pratica in tv quel che accade nel jazz: c’è uno standard con il suo tema e poi su quello ognuno improvvisa. Fino a dieci minuti prima di andare in onda, gli attori non sapevano nulla della scaletta. E così anche noi musicisti: più che provare, provicchiavamo, “non vi preoccupate”, ci rassicurava Renzo, “anche se fa un po’ schifo apprezzeranno la sincerità”».

In quella piccola formazione c’era la prima idea dell’Orchestra Italiana.

«Ricordo i primi concerti in tournée, il pubblico osannante ovunque. L’esordio al Festival di Montreux: stavo quasi svenendo perché a presentarci fu Quincy Jones, il mio idolo da sempre. A cena non riuscii a spiccicare parola tanto ero confuso nel trovarmelo quasi accanto. Un’altra sera, al Tout Va di Taormina, un fuori programma curioso: il palcoscenico forse non era fatto col legno migliore e piano piano, uno ad uno, eravamo una quindicina, sprofondammo nel sottopalco, per fortuna poco profondo».

La carriera da cantante solista non l’ha mai sedotto?

«Un pensierino ce lo avevo fatto dopo il primo album scritto e prodotto da Claudio Mattone che è un altro mio mentore insieme a Renzo. Però mi sento più musicista a 360° che cantante e soprattutto mi piace fare l’arrangiatore e il direttore, che è il mio lavoro quotidiano ai “Fatti vostri” con i cinque colleghi della band o quello che a San Silvestro faccio per “L’anno che verrà”, lo show di fine anno ma in quell’occasione con 30 orchestrali».

Da ragazzo sognava tutto questo a Cerreto Guidi?

«Sognavo di fare musica, sì. Mio fratello maggiore mi ha fatto conoscere i Beatles, lui aveva una band ma io volevo averne una tutta per me. Vita normale di una famiglia normale: papà commerciante di auto, mamma a crescere mio fratello, me e mia sorella, scuola, campo di calcio, chitarra».

Ha parlato di un periodo turbolento prima dei 30 anni…

«Più che turbolento, libertino, senza pensieri. Lavorando tutte le sere nei locali, l’approccio con le ragazze era più facile, la figura del musicista poi ti dava quel quid in più. Ma a 30 anni ho messo la testa a posto: nessuno avrebbe immaginato che sentimentalmente sarei diventato quello che sono».

Ovvero?

«È una vita che sono sposato con Paola, abbiamo due figlie, Maria di 39 anni e Natalia di 29».

Nessuna delle due con la passione per la musica?

«Natalia ha fatto con un certo successo la doppiatrice da bambina e ha imparato a suonare la chitarra. Poi ha smesso, adesso lavora insieme con sua sorella in una casa di moda». 

Nuovi sogni?

«Sono contento così, ho avuto più di quanto sperassi. Mi godo questo lavoro che continua a piacermi, un lavoro creativo quotidiano. Però, un desiderio ancora ce l’avrei».

Quale?

«Un disco di motivi che mi piacciono, che arrangio, dirigo e canto, magari con altri colleghi. Un disco con le mie canzoni del cuore».

Ce ne dica tre.

«Una del mio amico Claudio Mattone, “Infinità”, “Lontano dagli occhi” di Sergio Endrigo, un capolavoro, e “Qualche filo bianco” che fu un successo di Odoardo Spadaro».

Fiorentino come lei.

«Vivo a Roma da più di 40 anni ma rimango fiorentino nel cuore. E tifo viola, ovviamente».


Ultimo aggiornamento: Lunedì 12 Giugno 2023, 06:00
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