Chet Baker, Pieranunzi: «Un genio magnetico ti costringeva a suonare meglio»

Il musicista: "A fine carriera aveva perso i denti, ma faceva miracoli con la dentiera"

Pieranunzi: «Un genio magnetico ti costringeva a suonare meglio»

di Rita Vecchio

«Una genialità fuori dal comune. L'incontro con lui. Mi ha cambiato la vita. Da lui ho appreso il minimalismo». Il pianista Enrico Pieranunzi ha immagini vive quando racconta di Chet Baker: la musica, il carcere, la tossicodipenza, i debiti, e le donne, Diane, a cui dedica il famoso disco, e la cantante Ruth Young. «Ho iniziato a conoscerlo negli anni '50, quando ascoltavo i suoi dischi con Gerry Mulligan, i brani Carioca e Line for Lyons».

Chet Baker: jazz, magia e misteri in un film. Pieranunzi: «Era un genio magnetico»


Che persona era?
«Magnetica. Con quel fraseggio lirico e inesorabilmente giusto, ti costringeva a suonare meglio».


Quando lo incontrò?
«Nel '79, dopo il fattaccio dei denti. Era un miracolo per un trombettista suonare a quel livello con la dentiera. Mi chiamarono per un live nelle Marche con Roberto Gatto e Riccardo del Fra. Sfacciatamente gli chiesi di fare un disco. Nasce così Soft Journey, un album scritto per lui e oggi introvabile. Soft, per la morbidezza del suo suono. Fu definito il migliore di quelli che incise in Europa. Il brano Night Bird lo riprese in tutto il mondo. Paul, uno dei suoi figli, ne rivendicò prepotentemente i diritti. Ma esiste il contratto originale».


Il disco vanta le note di copertina.
«Volevo le scrivesse lui. Non lo aveva mai fatto prima. Me le fece trovare con un biglietto dalla grafia di impressionante regolarità all'Hotel Anglo Americano di Roma. La data è il 10 gennaio 1980, pochi giorni dopo aver inciso in duo, My Funny Valentine.

Per me, una reliquia».


Una falsa leggenda?
«Si dice che non sapesse leggere le note. Invece le conosceva bene. La particolarità di Chet era l'orecchio incredibile: gli bastava una sola nota per eseguire l'intera partitura».


L'altro album insieme è Silence.
«Di Charlie Haden, per alcuni tra i 100 dischi jazz da salvare. Chet lì stava male. Non si reggeva in piedi. In studio c'era Diane. È stato difficile registrarlo».


Fu suicidio?
«Non credo. La tossicodipendenza cerca dipendenza, che è ragione di vita. Era molto bravo sia nei dosaggi, sia nella scelta dei fornitori».


Si dice che chiedesse soldi a chiunque.
«Li chiese pure a me. Il giorno che morì Bill Evans. Fu lui che mi svelò che la causa della morte era stata la cocaina e non l'ulcera, come allora si scrisse. Gli diedi 400mila lire. Ne restituì poi a mio padre 200. A differenza di Evans, Chet non nascondeva la dipendenza. La musica gli ha salvato la vita. Lui suonava così nonostante la droga. In America lo ricordano come un druggy (drogato). In Europa, come un talento».


The Heart of the Ballad e Little Girl Blue, furono gli ultimi dischi. E li registraste insieme.
«A una giornata di distanza. Lo vidi l'ultima volta al concerto di Ray Bryant al Big Mama di Roma dove raccontò che aveva appena finito di incidere un bel disco. Mi chiamava maestro, imbarazzandomi. Con lui, un rapporto fortissimo e silenzioso».


Ultimo aggiornamento: Sabato 20 Novembre 2021, 08:41
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