Chet Baker: jazz, magia e misteri in un film. Pieranunzi: «Era un genio magnetico»

Droghe, demoni e donne: la vita noir di uno dei fuoriclasse del cool jazz

Chet Baker: jazz, magia e misteri in un film. Pieranunzi: «Era un genio magnetico»

di Rita Vecchio

Arriva “Jazz Noir - Indagine sulla misteriosa morte del leggendario Chet” (Wanted Cinema), il film su Chet Baker presentato ieri in anteprima a Milano che dal 22 al 24 novembre sarà proiettato per la prima volta nelle sale italiane (su wantedcinema.eu l’elenco delle città aderenti). Tossicodipendenza, demoni, donne: un noir che parte dalla morte di uno degli esponenti più importanti del cool jazz, avvenuta precipitando dalla finestra di una camera dell’albergo Prins Hendrik Hotel, nel quartiere a luci rosse di Amsterdam, il 13 maggio 1988. Un suicidio o un cocktail fatale che gli fece scambiare una finestra per una porta? Le musiche sono tratte da registrazioni originali, mentre la regia è dell’olandese Rolf van Eijk. A interpretare Chet, l’attore Steve Wall (“Vikings”, “The Witcher”), frontman della band The Walls and The Stunning. Le proiezioni a Milano (Anteo, Multisala Eliseo e Wanted Clan) sono inserite nel programma della Milano Music Week 2021 (dal 22 al 28 novembre).

Il film biografico dedicato a Chet Baker "JAZZ NOIR - Indagine sulla misteriosa morte del leggendario Chet” arriva in Italia

Chet Baker, Pieranunzi: «Un genio magnetico ti costringeva a suonare meglio»

Chet Baker, Pietropaoli: «Lui era insieme dolce e cinico»

Chet Baker, Roberto Gatto: «A 200 all'ora in auto sotto la neve»

IL CONTRABBASSISTA PIETROPAOLI: «ERA INSIEME DOLCE E CINICO»

«Purtroppo, spesso lo si ricorda prima di tutto per la droga. Ma fino alla fine, Chet Baker è stato uno dei più grandi trombettisti della storia del jazz». 
È Enzo Pietropaoli che racconta. Il famoso contrabbassista con Baker incise “Chet on Poetry” e “Little girl Blue”, l’ultimo lavoro in studio a due mesi dalla morte.


Prima immagine che le viene in mente?
«Il suo volto. La sua espressione. I suoi sforzi, soprattutto negli ultimi anni, di cercare le note sulla tromba. Con fatica e sofferenza ha prodotto momenti indimenticabili di arte pura».


Quando iniziò a lavorare con lui?
«Negli anni ‘80. Mi chiamarono per sostituire il contrabbassista. Per me fu la realizzazione di un sogno».


Suicidio o altro?
«Non credo avesse voglia di suicidarsi. Magari ebbe un senso di soffocamento dovuto ai problemi di tossicodipendenza. Perché ti fai? Gli chiesi una volta. Perché mi piace, mi rispose. Era uno che aveva dignità, anche quando chiedeva soldi. E quando stava bene, era gentile».


Cosa ricorda fuori dalla musica?
«La sua abilità nella guida, nel riparare le macchine. Aveva senso pratico. Spesso girava con sua figlia Missy: verso di lei, amore e distacco. Dolcezza e cinismo. Come era lui».


Una frase?
«Enzo, ricordati che quello che importa di un assolo è come inizia e come finisce. Aveva ragione». 

IL BATTERISTA GATTO: «CON LUI IN AUTO A 200 KM ALL'ORA SOTTO LA NEVE»

«Aveva il pregio di ascoltare gli altri sul palco». Il batterista Roberto Gatto è tra i musicisti che hanno collaborato di più con Chet Baker. Concerti per tutto il periodo europeo, incidendo “Soft Journey” e “Chet on Poetry”. «Ho iniziato a lavorare con lui che avevo 18 anni».


È vero che non amava i batteristi?
«Vero. Ero entrato nelle sue simpatie. Ho suonato con lui fino al concerto di Torino, pochi giorni prima che morisse. Fu fermato alla frontiera, gli fu trovato metadone. Arrivò tardissimo. Mi diede un pugno sulle spalle e mi disse “Non ho problemi a suonare con te”.

Fu l’ultima volta che lo vidi. L’odio era una questione di dinamica: i batteristi suonano forte, lui aveva il problema a spingere il suono (perse i denti per l’aggressione che ricevette, ndr)».


Aneddoti?
«Amava le macchine. Un giorno mi venne a prendere a Bonn. Caricammo la batteria e partimmo sotto una tormenta di neve. Andava a 200 km all’ora, fumando canne e ascoltando Weather Report. Mi feci il segno della croce. E quando dopo i concerti doveva pagarci, si presentava con un pacco di dollari, se ti distraevi un attimo ti fregava (ride, ndr)».


Lei ha suonato nel carcere di Lucca nella cella dove fu recluso.
«Durante un tributo. È stato emozionante. Fu benvoluto anche lì. Era un genio». 

PIERANUNZI: «ERA UN GENIO MAGNETICO, TI SPINGEVA A SUONARE MEGLIO»

«Una genialità fuori dal comune. L’incontro con lui. Mi ha cambiato la vita. Da lui ho appreso il minimalismo». Il pianista Enrico Pieranunzi ha immagini vive quando racconta di Chet Baker: la musica, il carcere, la tossicodipenza, i debiti, e le donne, Diane, a cui dedica il famoso disco, e la cantante Ruth Young. «Ho iniziato a conoscerlo negli anni ’50, quando ascoltavo i suoi dischi con Gerry Mulligan, i brani Carioca e Line for Lyons». 


Che persona era? 
«Magnetica. Con quel fraseggio lirico e inesorabilmente giusto, ti costringeva a suonare meglio».


Quando lo incontrò? 
«Nel ’79, dopo il “fattaccio” dei denti. Era un miracolo per un trombettista suonare a quel livello con la dentiera. Mi chiamarono per un live nelle Marche con Roberto Gatto e Riccardo del Fra. Sfacciatamente gli chiesi di fare un disco. Nasce così “Soft Journey”, un album scritto per lui e oggi introvabile. “Soft”, per la morbidezza del suo suono. Fu definito il migliore di quelli che incise in Europa. Il brano “Night Bird” lo riprese in tutto il mondo. Paul, uno dei suoi figli, ne rivendicò prepotentemente i diritti. Ma esiste il contratto originale». 


Il disco vanta le note di copertina. 
«Volevo le scrivesse lui. Non lo aveva mai fatto prima. Me le fece trovare con un biglietto dalla grafia di impressionante regolarità all’Hotel Anglo Americano di Roma. La data è il 10 gennaio 1980, pochi giorni dopo aver inciso in duo, “My Funny Valentine”. Per me, una reliquia». 


Una falsa leggenda? 
«Proprio che non sapesse leggere le note. Invece le conosceva bene. La particolarità di Chet era l’orecchio incredibile: gli bastava una sola nota per eseguire l’intera partitura».

 
L’altro album insieme è “Silence”. 
«Di Charlie Haden, per alcuni tra i 100 dischi jazz da salvare. Chet lì stava male. Non si reggeva in piedi. In studio c’era Diane. È stato difficile registrarlo».


Fu suicidio? 
«Non credo. La tossicodipendenza cerca dipendenza, che è ragione di vita. Era molto bravo sia nei dosaggi, sia nella scelta dei fornitori». 


Si dice che chiedesse soldi a chiunque. 
«Li chiese pure a me. Il giorno che morì Bill Evans. Fu lui che mi svelò che la causa della morte era stata la cocaina e non l’ulcera, come allora si scrisse. Gli diedi 400mila lire. Ne restituì poi a mio padre 200. A differenza di Evans, Chet non nascondeva la dipendenza. La musica gli ha salvato la vita. Lui suonava così nonostante la droga. In America lo ricordano come un “druggy” (drogato). In Europa, come un talento». 


“The Heart of the Ballad” e “Little Girl Blue”, furono gli ultimi dischi. E li registraste insieme. 
«A una giornata di distanza. Lo vidi l’ultima volta al concerto di Ray Bryant al Big Mama di Roma dove raccontò che aveva appena finito di incidere un bel disco. Mi chiamava maestro, imbarazzandomi. Con lui, un rapporto fortissimo e silenzioso».


Ultimo aggiornamento: Sabato 20 Novembre 2021, 08:40
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