David Bowie, l'ultimo viaggio di Starman
in una vita che è come un'opera d'arte

David Bowie, l'ultimo viaggio di Starman ​in una vita che è come un'opera d'arte

di Claudio Fabretti
David Bowie si congeda dal mondo a 69 anni, stroncato da un cancro. Un’uscita di scena spettacolare, proprio dopo la pubblicazione del suo nuovo, acclamato disco “Blackstar”. In 50 anni di carriera non ha mai rinunciato alla sua voglia di cambiare, precorrendo i tempi. Il mondo del rock è in lutto: i colleghi star lo ricordano, i fan piangono davanti al murale che lo ritrae nella sua Brixton.


L'uomo che cadde sulla Terra è tornato alle sue stelle. David Bowie è uscito di scena così, nel modo più spettacolare e coerente, per colui che aveva fatto della propria vita un'opera d'arte. Al culmine della (ritrovata) popolarità, dopo aver appena pubblicato un nuovo, splendido album, Blackstar. Un disco colmo di intuizioni musicali e di presagi inquietanti, a partire da quei versi sinistramente profetici di Lazarus: «Guardate lassù, sono in paradiso».

Il Duca Bianco, l'uomo delle stelle saluta il mondo mentre il suo testamento musicale è appena uscito nei negozi (l'8 gennaio, proprio nel giorno del suo 69° compleanno). L'annuncio è arrivato come un fulmine a ciel sereno dal profilo Facebook dell'artista inglese ed è stato poi confermato su Twitter dal figlio Duncan Jones, regista con marchio doc di famiglia. Classe 1947, Bowie lottava da 18 mesi contro il cancro. Proprio mentre era alle prese con la malattia, ha registrato le canzoni – e i video, magnifici e disturbanti – di Blackstar.

Accompagnato da un drappello di straordinari musicisti jazz, aveva ancora una volta spiazzato tutti, con un lavoro fatto di grandi orchestrazioni e arrangiamenti elettronici, di avant-jazz e drum'n'bass, a partire dalla suite che dà il titolo al disco. È stata l'ultima prodezza di un artista che non ha mai smesso di stupire, neanche negli anni del suo (apparente) declino. Bowie è stato un genio mutante, pervaso dall'incessante ansia di percorrere e precorrere i tempi: «Time may change me, but I can't trace time» (Changes, 1971) è sempre stato il suo credo.

Ma il trasformismo è stata solo la più appariscente tra le arti di questo indecifrabile dandy. Nessuno come lui ha saputo mettere a nudo i cliché della stardom, il rapporto morboso, ma anche ipocrita, tra idoli e fan, il falso mito della sincerità del rocker, l'assurdità della pretesa distinzione tra arte e commercio. È stato anche uno dei primi musicisti a concepire il rock come arte globale (pop-art?), aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il music-hall, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive. Con lui è scomparso ogni confine tra cultura "alta" e "bassa".

Il suo charme non è sfuggito neanche al cinema, che lo ha ritratto in una galleria multiforme di personaggi, dall'ufficiale inglese di Furyo all'improbabile sovrano di Labyrinth.

Ora lo piangono tutti: familiari, amici, colleghi star, governanti, vescovi e una moltitudine di fan. Per il rock è una perdita incolmabile. Ma se è vero, come scrivono Fred Frith e Howard Howe nel saggio Art Into Pop, che «Bowie è una tela nera sulla quale la gente scrive i propri sogni», non resterà che chiudere gli occhi per continuare a vivere sospesi per sempre nella sua polvere di stelle.
Ultimo aggiornamento: Martedì 12 Gennaio 2016, 10:00
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