Bobby Solo festeggia 60 anni di carriera: «Io come Elvis, sempre libero. Ecco il mio regalo di San Valentino»

Sessant'anni di carriera per il pioniere del rock italiano, che festeggia con un Cha Cha Cha con Max Trusso

Bobby Solo festeggia 60 anni di carriera: «Io come Elvis, sempre libero. Ecco il mio regalo di San Valentino»

di Claudio Fabretti

ROMA - «Il comune amore per il rock e per questo classico di Dean Martin ha chiuso un cerchio, anzi un cuore». È un San Valentino a passo di Cha Cha Cha D’Amour, quello che Bobby Solo regala agli innamorati. A 78 anni, il pioniere del rock italiano - colpevolmente dimenticato a Sanremo - si rimette in gioco assieme a Maxi Trusso, uno degli artisti argentini di maggior successo dell’ultimo decennio. Un remake giocato su suoni pop-rock melodici con retrogusto latin.
Com’è nato il progetto?
«È stata un’idea del produttore Claudio Donato. Voleva organizzare un duetto con questo ragazzo argentino (52 anni, ndr). Gli ho chiesto solo che fosse un pezzo semplice, orecchiabile. Non amo il rap, perché sono vecchio».
Mica tanto, a giudicare dalle sue recenti performance. E poi lei è rock.
«Sono libero come il mio segno, i Pesci. E ho una mentalità a 400 gradi, non 360. Adoro country, bluegrass, folk, r’n’b, blues, rock’n’roll, rockabilly, punk, bossa nova, samba, rumba... ho molti dischi africani e amo le canzoni francesi: Gilbert Becaud, Jacques Brel, Edith Piaf, Henri Salvador. Questo duetto mi ha fatto sentire più giovane».
Conosceva Trusso?
«No, anche se sono stato in Argentina 11 volte. Adoro quel paese e anche il suo cibo, come l’asado: ne mangiavo a tonnellate! Loro prendevano un bue, lo aprivano in due e lo mettevano a 3 metri da un falò enorme, e non bruciava col fuoco ma con gli infrarossi, per 6 ore».
Il Sudamerica per lei è una seconda casa...
«Altroché! Ho fatto anche 8 tour in Venezuela, con Adriano Aragozzini. A Caracas ricordo queste cadillac di 6 metri lasciate lì dagli americani e il fumo nero che facevano. E c’era un milanese, Renny Ottolina, che aveva creato la tv più importante del Venezuela: era così ricco che aveva smontato un castello scozzese e se l’era portato con la nave a Caracas».
Sessant’anni di carriera: che effetto le fa?
«Ho sempre fatto solo quello che sentivo, nel bene e nel male. Ho iniziato con i miei primi tre 45 giri nel 1963, a 19 anni. Ma nessuno lo sapeva, me li compravo da Discoland, a Milano. E la mia zia Edvige me li prendeva a Trieste».
E poi?
«A settembre ci fu a Milano un X Factor preistorico: Ribalta per Sanremo. C’erano Remo Germani, Ricky Gianco, Gino Santercole. Io ero piccoletto, cantai Ora che sei già una donna. Quando Gianni Ravera, l’organizzatore di Sanremo, ascoltò la mia voce, mi abbracciò e mi disse: “Ti porto al Festival”».
E fu subito “Una lacrima sul viso”...
«Scrissi un testo molto casareccio. Tramite il padre, incontrai Mogol, con cui ormai siamo fratelli. E così nacque la canzone. Ma la Ricordi non credeva in me».
Perché?
«Dicevano che avevo i bassi di Frankenstein e il falsetto di un castrato della Cappella Sistina! Mi dicevano che dovevo imitare Celentano, non Elvis Presley».
E a Sanremo come andò?
«Un trionfo. Ma solo dopo la prima serata. All’inizio in albergo mi avevano messo in un sottoscala, in una camera senza bagno. Ma dopo la mia esibizione (in playback, perché mi si erano paralizzate le corde vocali) alla Ricordi erano arrivati 300mila ordini del 45 giri. Così mi portarono alla nuova stanza: una suite all’ultimo piano».
Parliamo di Elvis: quanto è stato importante per lei?
«Il mio punto di riferimento. Lui a 8 anni nel Mississippi viveva a Old Saltillo Road, un quartiere poverissimo, dove lui e i genitori erano gli unici bianchi. È cresciuto con la musica dei neri e poi ha creato il suo stile unico. Era umile, comunicativo, aveva un viso come il David di Michelangelo, ma soprattutto una grande voce: avrebbe potuto cantare anche l’elenco telefonico di Memphis.».
Ha visto il film di Baz Luhrmann?
«Due volte. E ho pianto. Per fortuna la sala era buia e non mi hanno visto. In fondo abbiamo iniziato tutti e due a 19 anni, lui con That’s All Right e io con Una lacrima sul viso».
È vero che il nome “Bobby Solo” nacque per errore?
«Certo. Papà, Bruno Satti, era un ex-pilota militare, un duro, a volte mi picchiava, e aveva ragione perché facevo cose brutte. Lui voleva che diventassi medico o avvocato - mia madre mi voleva parroco, perché diceva che così le donne non mi avrebbero fatto soffrire. Lui diffidò la Ricordi dall’usare il cognome. E così Micocci disse alla segretaria, Stelvia Ciani, di chiamarmi Bobby, solo Bobby. E lei scrisse Bobby Solo. Ma alla fine ha funzionato, l’ho sentito cantare persino nel ritornello di una band punk olandese».
E il suo rapporto con il cinema?
«Ho fatto solo Una lacrima sul viso e Zingara, più qualche comparsata con Little Tony e Arbore. All’inizio di Una lacrima sul viso ero timidissimo, poi pian piano mi sciolsi. La cosa comica è che il film è stato girato alla rovescia: dalla fine all’inizio, così parto disinvolto e finisco impacciatissimo».
Che rapporto ha con il rock italiano attuale?
«Ho collaborato anche con Marta sui Tubi e con i Guano Padano, amici di Capossela, è stato divertente. Ma non posso cantare rap: mi servirebbe un’iniezione di fosforo per ricordare tutte quelle parole!».
Cosa ascolta di più oggi?
«Molto blues e country. Incontrai Johnny Cash nel 1967 nella base di Ramstein, in Germania. Un omone di un metro e 89, aveva un cappotto di cuoio spesso 4 millimetri, giocava a flipper... Mi ha dato una mano che sembrava una Fiorentina!».
Che aneddoti... dovrebbe scrivere un libro.
«Me l’hanno proposto, forse lo farò. Gliene racconto altri due. Tokyo, 1964: sono in tour per 40 concerti. Al Prince Hotel c’è la settimana della cucina italiana, con le fettuccine Alfredo. Vedo Fats Domino, un idolo. Mi fa: «Non portare mai i soldi in banca». E io: «Ma dove li metto?». Lui, con due bodyguard alle spalle, mi apre una borsa con dentro un milione di dollari, piena di rubini e smeraldi. Sempre allo stesso hotel nel 1970 presi un aperitivo con Elton John, vestito come un pirata, con mezza testa verde e mezza arancione e degli zoccoloni a scacchi».
Continua a fare concerti?
«Certo, la scorsa estate ne ho fatti 26. Ora mi faccio in auto 1.300 km per andare a Taranto. Mi sono trasferito da 15 anni a Pordenone, mia moglie è coreana-americana, figlia di un militare di stanza ad Aviano, mi manca Roma ma, come si dice, “Happy wife, happy life”».
Cosa suona?
«Faccio Cash, Willie Nelson, Elvis, ma anche il blues di John Lee Hooker.

E anche i giovani apprezzano».

Ascolta il brano su Spotify (clicca per ascoltare)


Ultimo aggiornamento: Giovedì 23 Febbraio 2023, 16:11
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