Da dove nasce l’idea del film?
«Da Tom e Jerry: quando ero bambino m’incantava vedere le loro zampette vorticare in aria e creare qualsiasi cosa la loro fantasia pensasse. Erano come dei direttori d’orchestra e ho mandato per mesi a Spielberg messaggi sul cellulare che esploravano questo parallelismo. Forse mi ha un po’ odiato».
È al secondo film da regista: è la sua vocazione?
«Quando mi sono trasferito a Los Angeles e ho avuto il mio primo grande lavoro, la serie tv “Alias” con Jennifer Garner, io non lasciavo mai il set. Mi piaceva guardare il lavoro del regista J.J. Abrams. Da quel momento l’ho fatto per ogni progetto. È diventata un’abitudine che non mollo mai».
Ne ha un’altra?
«Sì, il ritiro di due settimane da solo con chi condivide con me il film da protagonista.
Oltre alle ore al trucco, come si è preparato al ruolo?
«Per tre anni e mezzo quasi tutte le sere dopo aver messo a dormire mia figlia, andavo alla Filarmonica a vedere da dietro le quinte prima le prove e poi gli spettacoli per capire i movimenti del direttore d’orchestra. Nel film non ho controfigure, eseguo i movimenti, ma per arrivarci ho impiegato molto studio».
Qual è la scena più forte emotivamente che ha girato?
«Il litigio tra Leonard e la moglie. È ripresa da lontano perché ricordo bene quando i miei genitori s’infuriavano l’uno con l’altro e io e mia sorella ci mettevamo ad assistere a distanza di sicurezza. Ecco, vorrei che il pubblico si sentisse coinvolto allo stesso modo».
Il film parla d’arte. Qual è il suo potere più grande?
«La capacità di lenire i dolori quando li vediamo rappresentati in archetipi, in storie più grandi di noi, e c’immedesimiamo».
Ultimo aggiornamento: Giovedì 21 Dicembre 2023, 10:04
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