Coronavirus, la testimonianza nella Casa Famiglia per disabili: «Qui il metro di distanza non è possibile e viviamo con la paura di contagiarli»

Coronavirus, la testimonianza nella Casa Famiglia per disabili: «Qui il metro di distanza non è possibile e viviamo con la paura di contagiarli»

di Silvia Natella
Il distanziamento resta la migliore precauzione contro il coronavirus, ma ci sono persone come gli operatori sociali che non possono rispettarlo perché si occupano delle persone più fragili della società. Marco Coletta è il responsabile di Casa Salvatore, una casa famiglia nel quartiere Salario della Capitale che ospita da anni sei persone con tipologie e gradi diversi di disabilità. Ha aderito insieme ad altre cooperative alla campagna “A meno di un metro di distanza”. L’appello mira a sensibilizzare le istituzioni ricordando l’esistenza e le difficoltà di piccole realtà come Casa Salvatore. 

Come state gestendo l’emergenza?
«Ci siamo barricati in casa già prima del primo Dpcm e abbiamo adottato misure molto drastiche come farci lasciare la spesa sulla porta e impedire le visite. I turni per i nove operatori sono raddoppiati, mentre ai tanti volontari abbiamo chiesto di restare a casa e di limitarsi alle videochiamate proprio come i familiari. Inizialmente la nostra volontà di sospendere le attività con i centri diurni è stata presa un po’ estrema, poi piano piano abbiamo capito che era la misura necessaria».

Come hanno reagito a Casa Salvatore?
«Interrompendo le loro normali attività diurne abbiamo stravolto le abitudini. Per loro la routine è fondamentale, è una sicurezza a cui si attaccano; nel momento in cui è venuta meno a livello psicologico ed emotivo è stato un trauma». 

Sanno il perché di tutto questo?
«Sono informati, guardano la televisione, ma noi cerchiamo sempre di filtrarne i contenuti. Alessandro, Anna, Elio, Patrizia, Pino e Roberto ci massacrano di domande e noi proviamo a rispondere ogni volta. Ciascuno di loro ha una vita sociale differente, per chi ce l’ha intensa tutto questo è molto difficile. Prima erano tanto impegnati, ora li intratteniamo in modo differente. Abbiamo comprato il chromecast per fargli vedere le loro fiction preferite come “Don Matteo”».

Quali misure avete adottato e come è cambiata la vostra vita? 
«Abbiamo impedito a tutti gli altri di entrare. Per gli ospiti è stato l’ennesimo colpo: dall’oggi al domani hanno visto gli operatori con la mascherina e alcuni hanno provato anche a togliercela.  Erano come parte della famiglia e ora li vedono distanziarsi il più possibile. Il momento dei pasti era molto importante, ma da più di due mesi mangiamo separati». 

Vi siete attrezzati con i dispositivi di protezione individuale?
«Utilizziamo mascherine chirurgiche e guanti monouso. Abbiamo fatto carico di quelle FFP2 filtranti, ma solo nell’eventualità che uno degli ospiti contragga il virus. Per casi di emergenza abbiamo messo da parte anche camici monouso». 

Molti dei focolai si sono sviluppati nelle Rsa e delle case di riposo. Come affrontate la paura?
«Nonostante i costi siano aumentati, abbiamo deciso di mantenere le supervisioni con lo psicoterapeuta perché il clima è quello che è. C’è la paura di “omicidio colposo”, io per primo temo di portare all’interno della struttura da asintomatico il virus e di fare una strage. Noi per primi ci esponiamo a  un rischio e abbiamo sentimenti contrastanti. Da un lato cerchiamo di alleggerire il carico per non proiettarlo sugli altri, dall’altro puntiamo su misure molto drastiche come misurare la temperatura due volte al giorno e scegliere di lavorare in un’unica struttura». 

E i rapporti con l’esterno?
«Quello che abbiamo caldamente suggerito agli operatori è di fare è “casa e lavoro". Cerchiamo di fornire gli strumenti per qualsiasi esigenza, anche le convenzioni per la spesa. Abbiamo persino la farmacia che ci porta i medicinali a domicilio. Inoltre, ogni volta che ci sono problematiche particolari si osserva la regola della quarantena». 

Avete chiesto i tamponi?
«Stiamo facendo pressioni a livello istituzionale, ma ci dicono che a malapena riescono a farli al personale sanitario. Quindi stiamo puntando sui test sierologici. L’idea è di implementarli con una cadenza regolare (quindicinale). C’è un contatto continuo con la Regione per cercare di unire le forze perché tutto questo ha un costo. La cooperativa sta pagando tutte le spese, ma la situazione inizia a essere particolarmente pesante per le casse di piccole realtà come la nostra».

Gli ospiti come stanno?
«La reazione è molto diversa, ma il filo conduttore è lo stesso. Quello di un’ansia generalizzata per una situazione che non è sotto controllo. Molti di loro hanno somatizzato, cercano continuamente rassicurazioni sebbene il nostro stato d’animo non sia tanto diverso. Non hanno paura per la propria incolumità, piuttosto temono per il loro mondo che si è andato sgretolando. Abbiamo detto loro che le rinunce sono necessarie perché dobbiamo salvaguardare la loro salute e così facendo li abbiamo aiutati a trovare una nuova routine. A momenti di maggiore serenità si alternano quelli di insofferenza e nervosismo. Sentimenti molto vari». 

E la vostra Fase 2 in cosa consiste?
«Abbiamo iniziato a farli uscire a turno, perché la salute fisica è strettamente legata a quella psicologica. Si tratta di piccole passeggiate sotto casa. Un ospite per volta esce con l’operatore per andare attorno all’isolato con guanti e mascherine. Non erano mai usciti, hanno cominciato ora».
Ultimo aggiornamento: Martedì 12 Maggio 2020, 13:05
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