Prima della Scala, 13 minuti di applausi: «Cultura non si mescoli con la politica». E gli incassi tornano a livelli pre Covid

Tredici minuti di applausi, nessun rischio, tanti fiori sul palco, per l’Ur-Boris diretto da Riccardo Chailly con la regia di Kasper Holten

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di Rita Vecchio

Un rullo di timpano solo, che si spegne. E quel famoso dramma popolare dei contrasti, si conclude. Tredici minuti di applausi, nessun fischio, tanti fiori sul palco, per la Prima di Boris Godunov, o, meglio, della versione originale di Modest Musorgskij, l'Ur-Boris diretto da Riccardo Chailly con la regia di Kasper Holten e le scene di Es Devlin, che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala

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L’effetto in sala è magnificente. La semplicità degli elementi scenici è solo apparente. Dopo il lungo applauso di 5 minuti per l'arrivo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - nel Palco Reale con Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Giuseppe Sala e Ursula Von der Leyen per la quale l’orchestra scaligera suona l’Inno alla Gioia di Beethoven dopo il tradizionale Inno di Mameli - finalmente il libretto di Musorgskij, capolavoro della letteratura operistica, può andare in scena, trasmesso anche in tv, in diretta su Rai1

«L’opera mi sta piacendo molto, ha un grande fascino», ha detto Mattarella complimentandosi con Chailly, nell’intervallo tra la prima e la seconda parte durante il consueto saluto di metà spettacolo. Uguale il commento di Giorgia Meloni, presente anche lei al saluto al direttore d’orchestra con il compagno Andrea Giambruno, insieme al sovrintendente della Scala Dominique Meyer, il sindaco di Milano Sala con la compagna Chiara Bazoli. «La cultura non deve mescolarsi con la politica e con quanto sta accadendo in Russia», aveva detto il presidente del Consiglio Meloni nel foyer del Teatro prima dell’inizio. «Come è noto, io ho una posizione estremamente chiara sul tema dell'invasione dell'Ucraina. Credo però che la cultura sia un’altra cosa. Noi non ce l'abbiamo con il popolo russo o con la cultura russa. E i due piani vanno tenuti distanti». Che poi, sono state le stesse parole del protagonista, il basso russo Ildar Abdrazakov al suo sesto 7 dicembre, a sipario chiuso, dopo essere stato acclamato dalla sala per l'interpretazione di Boris, nel dietro le quinte: «Noi musicisti e artisti parliamo con la cultura e la musica, e così vogliamo continuare a fare».  

 

La coralità è protagonista, i colori - bianco, rosso e nero - seguono a ruota i temi. La pergamena, avvolta dalla cartina delle regioni russe, si srotola occupando prepotentemente tutto lo spazio del fondale. È il fiume della storia, secondo la lezione di Puskin a cui Musorgskij si ispira nella stesura di Boris, su cui scorre il manoscritto originale del monaco Pimen (Ain Anger), che lega e trascina con sé passato, presente e futuro. Insieme ai fantasmi che - nella seconda parte - corrono in scena spargendo in Boris il senso di colpa, di terrore e di follia. «È la cronaca realistica di chi lotta per la libertà di parola - aveva spiegato Holten - e quindi politicamente pericolosa per ciò che Boris e i suoi scribi tentano di occultare». Una storia circolare in cui la violenza è la costante. Come costante, nell'Ur-Boris scaligero, è la relazione simbiotica tra la bacchetta di  Chailly e la regia di Holten, e quella tra loro e la voce di Ildar Abdrazakov: «Senza la sua presenza, non avremmo scelto quest'opera», aveva dichiarato lo stesso Chailly.

Holten dà spazio al dolore attraverso gli opposti, nella battaglia continua tra verità e menzogna. La sete di potere e la prepotenza dell’ascesa al trono, da una parte. La coscienza, il rimorso, il senso di colpa per il potere stesso, ottenuto (secondo la leggenda) grazie all’assassinio del piccolo zarevič Dmitrij, legittimo erede al trono, dall’altra. Esempio ne è il cantabile del “Triste è la mia anima!” prima ancora dell’incoronazione, e “l’involontario terrore di funesti presentimenti” che gli stringono il cuore, insieme al fantasma e allo spettro del fanciullo Dmitrij, fino ad arrivare alla morte.

Una condanna annunciata che mette in luce attraverso un proscenio color sangue la fragilità dell’essere umano, sfiorando l'impensabile pietà per un uomo crudele come Boris, lo zar diviso tra la bramosia del potere, che ottiene, e la sua coscienza di uomo, che non riesce a dominare. Insieme alla paura per il destino dei figli, Fëdor (Lilly Jørstad) e Ksenija (Anna Denisova). 

Il parallelismo ricercato e voluto da Chailly e Holten tra il Boris e il Macbeth è evidente, anche in linea di continuità con l’opera verdiana che ha inaugurato la precedente stagione. Una staffetta Macbeth (interpretato l’anno scorso da Luca Salsi) e Boris (Ildar Abdrazakov), dove i due protagonisti condividono la stessa sete di potere. Affascinante la timbrica dell’Ostessa (qui interpretate da Maria Barakova) che spezza le voci virili, quelle che valsero a Musorgskij nel 1869 la bocciatura di questa prima versione dell’Ur-Boris. 

 

Accuse pretestuose perché le voci femminili in Boris c’erano. Un dramma popolare in recitar cantando, che mischia parole e musica con un linguaggio che è appunto del popolo. Splendida la romanza di Varlaam (Stanislav Trofimov) e la melodia popolare del 1860 raccolta da Ivan Hudjakov. Come interessante è l’inserto della commedia, quasi opera buffa, quando in una sola scena Musorgskij cerca di suscitare l’ilarità del pubblico dopo il racconto della morte. Stessa cosa per il lamento dell’Innocente. Splendido il coro che, diretto dal maestro Alberto Malazzi insieme alle voci bianche del maestro Bruno Casoni, è protagonista narrante gli umori del popolo, portatore di richieste e della voglia di condannare il falso. Grande centralità Holten dà alle scene di massa che usa per raccontare la manipolazione del popolo stesso da parte del potere, prima della presa di coscienza e della ribellione. E un’orchestra che risponde alla provocazione di Musorgskij, dando sfogo al senso scabroso dell’armonia e delle sfaccettature dell’orchestrazione. 

Una Prima che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala partendo da polemiche per via del titolo. Un titolo, Boris Godunov, effettivamente scomodo per i tempi di oggi calunniati dal conflitto russo-ucraino. Ma l'opera è una delle più imponenti della letteratura. Si pensi soltantoricorre in Scala per la 26esima volta, superando il numero della Carmen di Bizet (che ne conta 24), con 150 rappresentazioni, passando per le somme bacchette di Toscanini e Abbado. Con l’attualità e con la guerra, obiettivamente, ha ben poco. Se non per i tratti generali che valgono per tutte le epoche. 

A parte il muro del Piermarini imbrattato in segno di protesta degli ambientalisti la mattina della Prima e uno sporadico gruppo che nel pomeriggio nella piazza antistante ha contestato la presunta propaganda russa pro Putin, il Boris è piaciuto. Da Mario Monti a Morgan, da Gianni Letta a Roberto Bolle le voci  di gradimento suonano all’unisono. 

 

Se la politica con il Boris è tornata al Piermarini dopo anni di assenza (da Madama Butterfly in poi, soprattutto), lo sfarzo e il lusso di abiti e gioielli che si vedevano nei decenni precedenti nel foyer del Teatro, sembrano essere stati dimenticati. Anche per Musorgskij vale quanto successe per Verdi: sobrietà e ancora sobrietà, signori cari. E da Giorgia Meloni a Liliana Segre, è Giorgio Armani lo stilista più scelto per la Prima. «Sono certo che chi vedrà questo spettacolo supererà alcuni dei dubbi che hanno accompagnato la sua gestazione», aveva detto il sovrintendente Meyer. E aveva ragione. E se il teatro chiude soddisfatto con l'incasso della serata che è di 2 milioni e mezzo, dati che trovano dei precedenti simili in epoca pre-Covid (i numeri del Macbeth del 2021 erano di 2.330.000 euro), in cena è il gong finale fa calare il sipario su questo 7 dicembre che, per la Scala e l’arte tutta, ha rappresentato anche questa volta e anche con l’Ur-Boris, una grande occasione di bellezza. 


Ultimo aggiornamento: Sabato 18 Marzo 2023, 20:09
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