Il Guardiano del Faro, il ritorno. Monti Arduini: «A 82 anni un nuovo disco, la mia musica dà assoluta libertà»

Milioni di copie vendute nel mondo con "Amore grande, amore libero". Una vita nella musica, tra discografia e composizione. "Ma non ho mai sgomitato per arrivare in cima"

Il Guardiano del Faro, il ritorno. Monti Arduini: «A 82 anni un nuovo disco, la mia musica dà assoluta libertà»

di Totò Rizzo

Federico Monti Arduini, è ancora tempo per far sognare? «Mai come in questo momento. Più la vita diventa complicata, anche nel nostro piccolo quotidiano, più sognare è un’esigenza. Non dico sogni impossibili ma quelli realizzabili sì». E così, per far sognare, questo distinto signore 82enne, una vita nelle note, per gran parte di questa vita meglio noto come Il Guardiano del Faro, torna in pista dopo vent’anni di silenzio discografico con un album che si intitola proprio “Il venditore di sogni”. L’uomo della musica strumentale, lo scopritore – in Italia – del  rivoluzionario “moog”, l’autore di brani per i bei nomi della nostra canzone a cominciare da Mina, il dirigente della Ricordi, milioni di dischi venduti nel mondo (“Amore grande, amore libero” è la sua hit) si rifà vivo con il suo pianoforte, un’orchestra di 40 elementi, una serie di ospiti ai quali ha chiesto di partecipare al progetto.

Perché qto ritorno e perché ancora con la musica strumentale?

«Sicuramente perché c’era una nuova esigenza di dire e nella vita ho sempre detto in musica quello che non mi riusciva di dire con le parole. E poi perché la musica strumentale è libertà assoluta, non ha l’assillo del testo, chi ascolta può metterci quello che vuole, a seconda dei sentimenti che in quel momento lo attraversano».

Collaborazioni importanti, nel disco: dalla tromba di Fabrizio Bosso all’armonica di Giuseppe Milici, a CeCe Rogers, re della house, musicisti di una generazione diversa dalla sua.

«Bosso e Milici non li conoscevo personalmente. A Bosso ho chiesto di incontrarci a Roma, in sala di registrazione. È stato subito entusiasta. Ci vuol poco a capire che è il più bravo con la tromba, la sua è riconoscibilissima tra cento, ascolti e dici “questo è Bosso” ma non per il suono in sé ma per quello che quel suono dice, la sua tromba è come se parlasse. Anche per l’armonica cercavo uno molto bravo, alla Toots Thielemans. Già, e dove lo trovo?, mi chiedevo. Così sono andato a cercare su internet e mi sono imbattuto per caso in Milici. Ti mando la base, gli ho detto, tu suona tutto il brano, poi decido io dove entrare col pianoforte. Bene, ho lasciato la sua armonica per tutto il tempo perché ascoltando la traccia ho pianto per la commozione. CeCe Rogers continua a mandarmi ogni giorno whatsapp dei suoi fans che, dopo aver ascoltato il brano inciso con me, gli scrivono: ecco, vedi, è questa la musica che devi fare! E a proposito di generazioni: credevo che questi colleghi più giovani quasi non mi conoscessero e invece scopro che sapevano tutto di me».

Poi ci sono i vecchi “compagni di cordata”, da Natale Massara a Johnny Fontana di Santo & Johnny.

«Amicizia e lavoro durati anni. Con Massara per gli arrangiamenti, le direzioni d’orchestra, le incisioni. Santo & Johnny li ho prodotti in tutti i loro dischi. Quando i due fratelli si sono divisi, con Johnny sono rimasto più in contatto. Abbiamo inciso a distanza: io a Milano, lui a Long Island. Però sempre a distanza mi piacerebbe anche fare un video del brano, una clip Italia-America via Skype, sarebbe bello».

Ributtarsi nella mischia alla sua età è una bella dichiarazione di ottimismo.

«Sa, in tutta la mia vita artistica non ho mai avuto l’ambizione di arrivare in cima. Anche quando partecipai al “Disco per l’estate” e vinsi con “Amore grande, amore libero” e dopo qualche settimana mi trovai primo nelle classifiche di tutto il mondo, non è che avessi tutta questa bramosia di successo. Le dirò di più. Quando incisi da cantante il mio primo disco, nel 1959, “Dolci sogni” fu un bel successo anche quello. Ma pensavo: io non mi sento nato per fare l’artista, voglio un lavoro normale. E così la mia casa discografica mi mandò in magazzino. Pensi un po’: imbustavo i miei dischi. Dopo un paio di mesi, mi dissero: dai, non fare il pirla».

Perché questa diffidenza?

«Forse perché in famiglia fare l’artista non era considerato lavoro affidabile e remunerativo nel tempo».

“Amore grande, amore libero” fu davvero un successo planetario.

«Solo in Francia, dal 1975 ad oggi, ne hanno incise 25 diverse versioni cantate.

Fu un fenomeno mondiale. Lo trattarono freddamente solo in Inghilterra. Ma lì mi presi la rivincita».

Ovvero?

«Avevo scritto un brano per Orietta Berti, “Solo tu”. Un giorno si presenta il discografico di Cliff Richard: “Devi assolutamente vendermi i diritti di questa canzone per il mercato inglese”. Confesso che me la tirai un po’. Poi dissi: beh, stiamo parlando di Cliff Richard. Okay, diritti accordati. Cliff incise “All my love”. Un botto da 20 milioni di copie».

Quando in Italia si parla di musica strumentale, la si considera un po’ come genere di intrattenimento, quasi di serie B.

«È una questione culturale. In America ci sono le singole classifiche del pop, del rock, del country, dell’elettronica, del metal… Noi siamo più provinciali. Produciamo tanta musica ma, forse anche per la difficoltà della lingua, non riusciamo a venderla bene all’estero. Quando ero alla Ricordi negli anni ’60 e ’70 e c’era Sanremo, calavano in Riviera durante il festival i più grandi produttori stranieri che si contendevano i diritti delle nostre canzoni con pacchi di dollari alla mano. Penso a “Volare”, “Al di là”, Gli occhi miei”, “Le colline sono in fiore”, “Io che non vivo”».

Oggi non è più così.

«C’è poco coraggio, forse. Ci sono troppi scimmiottatori in giro, uno copia l’altro. Nessuno che proponga una cosa originale e dica: se vi piaccio va bene, se non vi piaccio pazienza».

Chi le piace degli artisti della nuova generazione? Uno ci sarà…

«Diodato, bravissimo. Non solo musicalmente, anche i testi hanno qualcosa che scava nel profondo. Le sue canzoni sono emozione».

In questo nuovo album, per non ripetersi, lei ha preferito il pianoforte al “moog”. Eppure, fu il pioniere del “moog” in Italia. Una vera rivoluzione.

«Caspita! Può ben dirlo. Grazie al “moog” ho trovato il successo e perduto il lavoro. Avevo un amico importatore di strumenti musicali dall’America. Mi fa: sai, c’è una nuova diavoleria inventata da un ingegnere, un tale Roger Moog. Te la posso mandare per farla ascoltare ai vostri artisti? Arriva questo “moog” dagli Usa e vado subito a provarlo in sala d’incisione coi tecnici. Nasce così “Il gabbiano infelice”, subito un successo. Io, sebbene lavorassi alla Ricordi, avevo chiamato il mio produttore per dirgli: piazzaglielo  tu, il brano, ma sotto pseudonimo, Il Guardiano del Faro, nessuno deve sapere che sono io. Purtroppo, lo venne a sapere “Sorrisi e Canzoni” che svelò il segreto. Mi chiamò il presidente della Ricordi: “Io l’ho assunta come dirigente, non come artista. Sulla scrivania c’è una lettera, deve firmarla subito per rinunciare ai diritti del disco”. Gli risposi: “Allora ne prepari anche un’altra perché in questo momento io mi licenzio da dirigente”».

Sulla scia del disco, le piacerebbe fare un live?

«Sì, anche se sono un pignolo, proverei mattina pomeriggio e sera per arrivare al pubblico così come il pubblico merita. Ma non sarebbe possibile, un’orchestra di 40 professori, no, è  uno sforzo produttivo molto grande».

Progetti futuri?

«Chissà. Non mi aspettavo questa nuova, enorme ondata d’affetto per il disco, le interviste, il whatsapp impazzito, i social in cui in centinaia ogni giorno mi scrivono “ascolto la sua musica da quand’ero ragazzo”, “mi sono innamorato grazie a lei”. Ho raccomandato soltanto: non mi fate fare ospitate qui e lì, non mi fate girare come una trottola in tv. Gliel’ho detto: in fondo, sono rimasto un po’ quello che imbustava i suoi dischi in magazzino».


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 28 Giugno 2023, 08:36
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