Dodi Battaglia, "Inno alla musica" è il primo album da solista dopo “l'era Pooh”: «Nostalgia sì ma guardo al futuro»

Dodi Battaglia, "Inno alla musica" è il primo album da solista dopo “l'era Pooh”: «Nostalgia sì ma guardo al futuro»

di Totò Rizzo

Ecco qui un altro settantenne della musica italiana all’assalto (taglia il traguardo della cifra tonda il primo giugno): Dodi Battaglia, Pooh per mezzo secolo, chitarrista tra i migliori europei (lo scrivono le riviste specializzate), compositore, arrangiatore, 80 milioni di dischi venduti con Facchinetti-Canzian-D’Orazio, suoi sodali d’arte e di vita, 70 mila ore suonate e cantate nei live tra teatri, palasport, stadi. A cinque anni dallo scioglimento del gruppo più longevo del pop nazionale, Dodi torna sulla scena con il primo disco da solista, “Inno alla musica” (Azzurra Music) che potrebbe sembrare un titolo pomposo se non fosse per quel po’ po’ di passato che ha alle spalle. 14 brani, di cui tre strumentali in omaggio all’amatissima chitarra di cui è ovviamente collezionista (oltre 50 dice la leggenda, in una sorta di casa-museo). Passato, presente e futuro, in questo disco: ad armi pari, sembrerebbe.

C’è però come un rimpianto che echeggia nelle prime canzoni.

«Parlerei più di una certa malinconia, di una velata nostalgia. Il rimpianto porta sempre con sé una scia di rincrescimento, qui c’è invece una constatazione lucida di quel che è stato ma anche di quello che avrebbe potuto essere. Quanti di noi, magari incontrando dopo tempo un vecchio amore, si sono soffermati a riflettere “chissà come sarebbe andata se fossimo rimasti insieme…”. Ma ormai è andata in un modo diverso, a che serve dunque il rimpianto? La vita scorre nel presente e nel domani. E in questo disco c’è anche fiducia, ottimismo, energia, carica, senso del futuro».

A tratti, sembra quasi un’autobiografia.

«In questi ultimi cinque anni, da quando i Pooh si sono sciolti, ho raccolto tanti di quei pensieri, di quelle riflessioni che mi è venuto spontaneo metterli in ordine. Stavolta anche attraverso le parole però. E già, perché non è che ai testi avessi mai pensato sul serio quando eravamo in gruppo. Io arrivavo, consegnavo le mie musichette e ci pensavano gli altri – bravissimi, in testa Valerio Negrini – a prendersi cura dei versi. D’altronde, sfornavano certi capolavori di parole e di metrica che… chapeau. La mia prima cura, in quel mezzo secolo con i miei amici, erano sempre stati lo spartito, la linea melodica, gli arrangiamenti. Stavolta ho tirato fuori anche il Dodi paroliere, supportato da altri professionisti».

E qualche sfizio se lo è tolto anche il Dodi chitarrista.

«Potevo, in un disco tutto mio, non pensare ad un tributo a quella che da sempre è la mia compagna più fedele? A cominciare dalla copertina che mi vede accanto alla chitarra incendiata, un po’ come nel rito sciamanico, sacrificale di Jimi Hendrix, fino ai tre pezzi strumentali, due che mi vedono insieme a un ensemble di grandi jazzisti e l’altro con il mio straordinario amico e sublime musicista che è Al Di Meola.

Anche con qualche digressione rispetto alle forme più “canoniche” del Dodi chitarrista dei Pooh, virando più sull’elettrico anche se a me le classificazioni in musica non piacciono».

Il brano più difficile da scrivere e da incidere forse «Una storia al presente», dedicato a Stefano D’Orazio. O sbaglio?

«No, è proprio così, tanto che mi chiedo come farò a cantarlo dal vivo senza che mi venga un groppo in gola. Eravamo così diversi, io e Stefano. Io pignolo, monotematico, tenebrosetto, anche un po’ chiuso rispetto al carattere dei bolognesi. Stefano, romano, così solare, compagnone, generoso fino al sacrificio di se stesso, ironico. Grande rispetto reciproco, differente complicità. Ecco, quello che forse non sono mai riuscito a dirgli a parole glielo canto in questo brano».

«Inno alla musica» esce anche in doppio vinile. Ormai è un ritorno acclarato.

«Sì, e non soltanto per gli appassionati. Non è questione di oggetto, di rapporto più fisico, quasi di feticismo. È un ascolto diverso nei tempi ma soprattutto un’occasione per riscoprire, all’interno dei solchi, suoni che non sono facilmente identificabili con i supporti tecnologici più moderni».

In tour quando?

«Ma preghiamo Iddio che accada prestissimo! Proprio ieri il mio manager mi ha detto di aver firmato il contratto per il primo concerto. Sono saltato sulla sedia e gli ho risposto: “Finalmente si torna a suonare davanti alla gente! Mille di queste serate!».

È una stagione di “settantenni d’acciaio”, tutti fuori con dischi di inediti: lei, Baglioni, Ranieri, Renato Zero, la Bertè… Cos’era quel 1950-’51: una buona annata?

«E aggiunga pure De Gregori, Venditti, Morandi… Sa, chi ha vissuto come noi e come noi ha cominciato in quegli anni ’60 e ’70 ha un know how che gli è servito a tener botta per cinquant’anni di carriera, abbiamo respirato l’atmosfera di quei locali, il momento del pop, delle band, del cantautorato: bellissimo, irripetibile, fantastico. Certo, c’erano talento e fortuna ma, mi creda, c’erano anche una dedizione, uno spirito di sacrificio che oggi, in molti ragazzi che vogliono fare questo mestiere, io non trovo più».


Ultimo aggiornamento: Venerdì 14 Maggio 2021, 08:54
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