Beruschi: «A 80 anni faccio il nonno e porto in giro un sorriso. Ma quanta nostalgia del Derby»

Beruschi: «A 80 anni faccio il nonno e porto in giro un sorriso. Ma quanta nostalgia del Derby»

di Ferruccio Gattuso

«È la faccia che mi frega». Ma lui sa bene che è proprio il contrario. Enrico Beruschi è un comico della vecchia scuola, quella che ti faceva cominciare a ridere dall’aspetto, o comunque dall’uso che ne facevi. La “narrazione”, come si dice oggi, partiva da lì, anche per lui. Un viso paffuto, la barba da orsacchiotto, la mascella che sembrava dotata di vita propria, pronta a prendere la tangente per motivi astrusi. Dai fratelli Marx a Marty Feldman, da Alberto Sordi a Totò, la faccia ce la dovevi mettere tutta. Oggi ci sono i comici che vogliono farti ridere restando cool, fighi. Oltreoceano, così come a casa nostra. Enrico Beruschi è un comico, un attore, una memoria vivente del cabaret lombardo e – a causa della pandemia – è fermo ai box, come tutti.

Come se la passa a casa?

«Non è il massimo, ma cerco di tenermi allegro. Il prossimo 5 settembre faccio ottant’anni tondi, dunque posso sfruttare come passatempo una fantastica nipotina. È lei che diverte me, non io lei. I famigliari, poi, mi proteggono, sono rigorosi sulle norme anti-Covid».

Ha immaginato nuovi spettacoli per la ripresa?

«Guardi, difficile immaginarsi qualcosa. Meglio aspettare armati di speranza. In questi mesi mi sono dedicato a fare ricerche sull’albero genealogico di famiglia».

Radici illustri?

«Diciamo che una mia bisnonna scendeva dagli appennini modenesi, in tempi che erano più duri di questi, e forse da lì ho preso un po’ di bagaglio ottimista».

È vero che ha anche una grande passione per la lirica?

«La lirica è una passione ereditata in famiglia, la prima volta come spettatore alla Scala avevo sedici anni. Poi ho recitato e cantato, come basso. E nel 2006 ho lavorato anche alla regia di un Barbiere di Siviglia al Donizetti di Bergamo, in forma scenica essenziale».

Da quanto tempo non fa ridere un pubblico in platea?

«Il 23 febbraio scorso interrompemmo Manzoni Anema e Core, al Teatro Villoresi di Monza: una sorta di Promessi Sposi in poesia napoletana, su versi di Raffaele Pisani. È un divertente viaggio tra Napoli e la Lombardia, con tanta musica napoletana.

Quando capimmo che l’ultima sera non si poteva andare in scena, andai comunque in teatro a chiacchierare con gli spettatori, ringraziandoli e restituendo i soldi».

Ci perdoni la sviolinata, ma questo è esattamente lo “stile Beruschi”.

«Senza il pubblico e le sue risate io non sarei qui. Appena finito il lockdown mi sono fatto delle grandi passeggiate, anche solo per incontrare la gente e vederla sorridere. Mi vedono e ridono, complice la mia faccia stramba. E questo lo vivo come un privilegio. Se incontro qualcuno malinconico gli dico: su, alégher!».

Le manca il palcoscenico?

«Certo. Soprattutto quello dello Spirit de Milan, un posto che è riuscito a recuperare il vecchio spirito delle osterie milanesi, e dove si può fare il cabaret com’era, quello vero. Alla loro radio in streaming SpiritoPhono conduco anche un programma, C’era una volta il cabaret, ma c’è ancora, dove si parla di questa bellissima forma di spettacolo».

Perché, oggi com’è?

«Non è certo quello che si vede in tv. Questi giovani vanno a memoria, battono chiodo per una manciata di minuti e dunque non possono interagire col pubblico. Ai tempi del Derby era tutta un’altra cosa. C’era un pubblico attento, che non si accontentava».

Lei vive ad Arese da tempo, ma se le si dice Milano, cosa risponde?

«Via Tibaldi e, attenzione, non Viale Tibaldi, come lo chiamano adesso. Una zona che è nel mio cuore perché ci ho vissuto».


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 10 Febbraio 2021, 17:17
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