Addio a Eugenio Scalfari, cambiò il modo di informare

Addio a Eugenio Scalfari, cambiò il modo di informare

di Totò Rizzo

Da dove cominciare? Dal giornalista? Dal fustigatore di vizi privati e pubbliche virtù del potere politico ed economico? Dal creatore di settimanali e quotidiani? Dall’imprenditore? Dallo scrittore? Dal pensatore illuminista e ateo che verso l’imbrunire dell’esistenza va alla ricerca del sovrannaturale, di un dio purchessia, senza abiurare alla sua fede laica ma intrattenendosi in lunghi conversari con il suo amico Papa Francesco? Perché Eugenio Scalfari, morto ieri a Roma a 98 anni, un’età da patriarca, è stato tutto questo.

Il giornalismo come rocchetto da cui tutti questi fili si sono dipanati, la letteratura e la filosofia come pane della sua curiosità già ai tempi del liceo a Sanremo (era compagno di banco di Italo Calvino) città dove il padre faceva il croupier al Casinò. Fu un articolo sulla corruzione dei gerarchi a decretare la sua cacciata dal Guf, il Gruppo universitario fascista, e a fargli prendere le distanze da libro e moschetto. Nel dopoguerra abbracciò gli ideali del socialismo liberale: saranno il perno di una vita e di una professione. Viene assunto alla Banca Nazionale del Lavoro a Milano e lì conosce Mario Pannunzio, collabora al “Mondo” e a “l’Europeo”, scrive di economia e intuisce che le dinamiche di una realtà apparentemente così lontana dalla società vanno spiegate in termini chiari, intellegibili, non più criptici, per addetti ai lavori.

È di quegli anni il secondo “incidente”: denuncia in un articolo lo scandalo della Federconsorzi, tra i maggiori clienti della Bnl. Trasferito per punizione in Sardegna. Ma ha in tasca una lettera di presentazione di Pannunzio per Arrigo Benedetti con il quale nel ’55 a Roma comincia l’avventura de “l’Espresso”, settimanale che, senza far sconti a nessuno, si propone di denunciare le magagne della politica, di sbugiardare i padroni del vapore: vent’anni di direzione (a parte una parentesi da deputato del Psi nel ’68 quando una condanna per un articolo potrebbe costargli il carcere, esperienza lunga una sola legislatura ma per lui noiosissima) che cambiano stile e metrica del giornalismo d’inchiesta.

Nel ’76 il figlio di carta più amato, un nuovo quotidiano, “la Repubblica” e anche stavolta nuove formule, per la politica niente pastoni ma più articoli, niente più terza pagina ma un paginone centrale per la cultura, grande spazio all’economia. Arriveranno in seguito aperture più “popolari”: l’edizione del lunedì con lo sport, più cronaca, più spettacoli. Giornale-partito, lo etichetta qualcuno: perché negli anni della crisi del Palazzo (l’intervista a Berlinguer sulla “questione morale”, Mani Pulite e Craxi, la discesa in campo di Berlusconi che diventa anche un nemico “aziendale” nella famosa battaglia con De Benedetti che porterà al lodo Mondadori) Scalfari smantella il sepolcro imbiancato dell’obiettività, abbatte il tabù dei fatti separati dalle opinioni. Lascerà il timone dopo vent’anni a Ezio Mauro.

Vita intensa anche nel privato: nel ’54 sposa Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, storico direttore de “La Stampa” (da cui nascono Enrica, fotografa, e Donata, giornalista anche lei), nel ’66 entra nella sua esistenza Serena Rossetti (segretaria de “l’Espresso”): un cuore diviso in due, un affetto che pure le due donne scelgono di condividere. Solo alla morte di Simonetta sposerà Serena. Su di sé, Scalfari ha scritto (e detto) tanto ma forse una frase compendia più d’ogni altra quel che ha fatto: «Non volevo certo cambiare l’Italia ma il giornalismo sì: credo che l’impresa sia riuscita».


Ultimo aggiornamento: Venerdì 15 Luglio 2022, 06:00
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