Tam Tam Basket, the dream team: lo sport che indaga sull'immigrazione. Il docufilm in prima nazionale all'Isola Tiberina

Un film che verrà proiettato per la prima volta in Italia, domenica 3 luglio, all'Isola Tiberina a Roma ed è stato selezionato dal film festival di Lubiana e dal film festival di Ischia

Tam Tam Basket, the dream team: lo sport che indaga sull'immigrazione. Il docufilm in prima nazionale all'Isola Tiberina

di Niccolò Dainelli

«Voi sapete cosa voglia dire essere un giovane, figlio di immigrati, che vive a Castel Volturno? Io adesso sì, ma dopo un anno di lavoro, dopo un anno immerso in questa realtà». Queste le prime parole di Mohamed Kenawi, regista egiziano che ha realizzato il docufilm «Tam Tam Basket, the dream team». Un film che verrà proiettato per la prima volta in Italia, domenica 3 luglio, all'Isola Tiberina a Roma ed è stato selezionato dal film festival di Lubiana e dal film festival di Ischia.

Un film che parla di una squadra di ragazzi nati in Italia, ma con genitori immigrati, che gioca in una squadra di Basket a Castel Volturno. 

Perché ha scelto proprio Castel Volturno?

«Perché Castel Volturno è un paese, una zona molto particolare, unico nel suo genere. Castel Volturno, infatti, è il Comune più multietnico d’Europa perché più di metà dei suoi cittadini sono immigrati, stranieri. E quindi in un contesto così particolare ho deciso di fotografare la situazione della Tam Tam Basket, una squadra di basket che è interamente composta da figli di immigrati».

Un film che va oltre allo sport?

«Esatto. Lo sport diventa veicolo per un qualcosa di molto più importante». 

Ovvero?

«Lo sport riesce a indagare tutti problemi sociali che troviamo in qualsiasi comunità. È un documentario che parla prevalentemente di immigrazione. Sono ragazzi che sono al 100% italiani: sono nati e cresciuti qua e che stanno studiando qui in italia. Ma che ogni giorno affrontano ostacoli e problemi legati proprio al fatto che siano figli di immigrati. La storia parla di una squadra di basket, ma in realtà questa storia potrebbe benissimo parlare di una comunità o di una qualsiasi altra realtà in cui si incontrano dei giovani figli di immigrati. È il racconto di una qualsiasi comunità di immigrati, che a me piace definire come una comunità destinata alla sconfitta».

Quindi è un docufilm di denuncia?

«No. Il film non è una condanna e nemmeno una denuncia. Anche se sono egiziano e sono integrato, mi trovo ancora in mezzo tra la realtà italiana e la realtà straniera, quindi non voglio schierarmi.

Il docufilm è solo un’istantanea di quello che avviene nei sobborghi italiani, ma non solo. Il film potrebbe essere ambientato in qualsiasi altra città d’Europa o del mondo. Ho cercato di renderlo il più internazionale possibile. Va a raccontare solo una storia umana, nel suo vero senso della parola. Una storia di uomini e di ragazzi che vivono e convivono con altri uomini e ragazzi. E dunque la mia comunità, destinata alla sconfitta, solo perché abituata a vivere in difficoltà e alle prese con problemi che altre non incontrano nel loro cammino».

È una decisione ben precisa.

«Sì, deve essere lo spettatore poi a emozionarsi e da lì farsi domande e cercare di darsi le sue risposte. Senza voler mettere in difficoltà lo spettatore, ma deve essere lui poi a schierarsi se ne vede il bisogno. Io ho solo scattato un'istantanea di quello che è una realtà. Non si può chiedere agli immigrati di integrarsi se non c’è l’ambiente giusto per l’integrazione, se non ci sono i presupposti affinché l’integrazione avvenga. Perché se chi arriva qui trova problemi e ostacoli è giusto anche indagare da dove vengono, se sono sormontabili o meno e se possono essere abbattuti, chi potrebbe spingere a eliminare questi ostacoli. Ma le soluzioni non devono certo ritrovarsi in un film».

Qual è la sua opinione in merito?

«Io penso solo che i media in generale e la politica parlino spesso del problema dell’immigrazione facendo titoloni e usando grandi parole a riguardo, ma poi le parole restano lì. Immigrati, integrazione, diritti dei cittadini: sono tutte cose che ogni giorno sentiamo dire, ma poi all’atto pratico succede poco. Le persone diventano numeri, tutto si riduce a numeri: tot persone arrivate, tot persone che vivono qui ecc. E per questo ho voluto raccontare quei numeri. Dopo un anno di lavoro, a stretto contatto con quei numeri e con quelle persone, dopo essermi immedesimato nelle loro storie, ho potuto raccontare questa piccola comunità, attenendomi il più possibile alla realtà. Ogni piccola sfaccettatura può essere importante, perché magari noi non gli diamo peso, ma per chi la vive sì, diventa forndamentale. E sicuramente parlare di più con queste persone potrebbe essere una soluzione importante».


Ultimo aggiornamento: Sabato 2 Luglio 2022, 20:27
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