Piange, come non ci ricordiamo di averlo visto da secoli. «Meritiamo la gioia, la gente festeggi che è giusto così. Ci credevo, ci credevamo». Vialli l’ha appena mollato dopo un abbraccio di lacrime che fanno pace con il passato comune: lacrime di dolore dopo il ko in finale di Coppa Campioni nel 1992, a Wembley. E proprio qui si ricompone il puzzle. Ora Mancini diventerà il più amato degli italiani. Ma era partito con lo stigma del raccomandato.
Mancio in lacrime: «La gente festeggi ce lo meritiamo»
Per via di quella deroga che lo creò allenatore anzitempo per editto dell’allora commissario Figc, Petrucci Gianni. Ora Petrucci quello strappo può aggiungerlo al curriculum vitae. Si dimise dal Settore Tecnico Azeglio Vicini, si scatenarono tutti i colleghi da Lippi a Ulivieri contro il Mancio. Oggi, però, Roberto Mancini, genio calcistico nato a Jesi, ha riportato l’Italia del calcio sul podio mondiale della credibilità. E il percorso dagli inferi dell’incredibile eliminazione dai Mondiali dell’azzurro gli vale una certificazione. Una laurea ad honorem. E il grazie di tutti. Un percorso lungo 20 anni, vissuto sempre nei quartieri alti del pallone: Mancini ha conquistato l’aristocrazia del football da adolescente predestinato. Ma... C’è un ma. Ha reso aristocrazia la proletaria Sampdoria, con Vialli (un gagà della pedata, con polpacci da bomber spiccio).
La Sampdoria allo scudetto, alla finale quasi vinta della Coppacampioni... La Sampdoria di cui era amministratore delegato in campo, come numero 10, come figlioccio (invidiato) dal presidente Mantovani, dall’allenatore Boskov, da Vialli e dagli altri campioni. E delegato alla costruzione della vittoria è stato anche alla Lazio, altra squadra sollevata di peso fino al vertice mondiale con Cragnotti ed Eriksson. E un gruppo in cui giocavano tipi come Mihajlovic, Simeone, Simone Inzaghi. Erano tutti allenatori in campo e Mancio più allenatore di tutti. Mancini, fin da ragazzo, nelle squadre ha contato e pesato molto più di quanto i ruoli assegnati potessero dire.
PENSO POSITIVO - La novità di Mancini ct, il segno della discontinuità rispetto a chi ha ricoperto il ruolo con successo in Italia è la polarità che ha voluto per la sua squadra. La sua Nazionale doveva avere la polarità positiva: il segno + sulla batteria per attrarre - contro le leggi dell’elettromagnetica - sia gli italiani stanchi di negatività che quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno.
L’ELEGANT ONE - Un’altra cifra stilistica tipica è quella dell’eleganza. L’eleganza è da Mancini ricercata nella scelta dei materiali delle maglie, dal loro disegno (chiedete a chi ci lavora se non metta bocca anche su questo, il Mancio). Bada sempre al look giusto. E a lui piace (oltre a convenirgli) essere testimonial di capi d’abbigliamento. Una cosa in comune con Billy Costacurta, l’allora vice del commissario Malagò che lo portò in azzurro dopo le parentesi belle (ManCity) e bruttine (Turchia e Russia). Eleganza è anche nella scelta - questa acquisita con il tempo - di non entrare nelle polemiche con la gamba alta. Da giocatore non è stato così, Mancini: un mangia-arbitri, un polemista contro il Sistema che era il super Milan di Capello o la Juve di Moggi. Ora sa sottrarsi con un colpo di tacco anche alle gaffe, come quella vignetta negazionista postata sui social, pochi giorni prima della positività al Covid.
Ora è uno dei testimonial della campagna vaccinale nazionale. Alla vigilia quando parlava di momenti sfortunati e sconfitte a cui trovare rimedio citava la splendida under 21 sconfitta ai rigori dalla Spagna, quella di Vicini. Che diventò poi la bella incompiuta di Italia ‘90. Di quella squadra è stato giovane fondatore, ma poi non attore protagonista. Se c’era una vendetta da cogliere per lui, per il cittadino Roberto, beh allora quella sconfitta (l’unica veramente indimenticabile) è quella ai supplementari con la “sua” Samp nella finale di Coppa dei Campioni nel 1992 contro il Barcellona.
Ultimo aggiornamento: Lunedì 12 Luglio 2021, 11:41
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