Sono passati 30 anni da quando Kurt Cobain si tolse la vita, ponendo così fine, oltre che alla sua esistenza, anche a quel genere musicale e fenomeno di costume chiamato grunge del quale con la sua band, i Nirvana, era stato capofila. «It's better to burn out than to fade away», era la citazione di Neil Young che concludeva il suo biglietto d'addio scritto prima che, il 5 aprile 1994, si suicidasse con un colpo di fucile nella serra del suo garage a Seattle: una frase che riassume al meglio la parabola umana e artistica dell'ennesimo martire del rock, finito oltretutto nel Club 27, il novero dei musicisti celebri morti a 27 anni comprendente, tra gli altri, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison.
A prima vista la storia di Cobain sembrerebbe un campionario di luoghi comuni del rock: l'infanzia difficile, la fuga da casa, la depressione, l'alcol, le droghe e il successo che non lenisce le ferite. Il mito dell'artista decadente e autodistruttivo. I suoi patemi fisici ed esistenziali erano acuiti da una tossicodipendenza che solo per caso non l'aveva mandato prima all'altro mondo.
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Ultimo aggiornamento: Venerdì 5 Aprile 2024, 14:05
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