Bugo: «Il rock è la mia energia per dare un calcio alle cose brutte. Sanremo? Soffro ancora»

Nuovo album in uscita, "Per fortuna che ci sono io"

Bugo: «Il rock è la mia energia per dare un calcio alle cose brutte. Sanremo? Soffro ancora»

di Rita Vecchio

Ritornare con un nuovo progetto musicale cercando di mettere un punto a ciò che ha legato negli ultimi quattro anni Cristian Bugatti, nel nome d’arte di Bugo, alle faccende del Festival 2020. “Per fortuna che ci sono io” è un capitolo che sarà pubblicato venerdì 15 marzo. 

Bugo, come sta? 

«Sto bene, grazie». 

BUGO - Per fortuna che ci sono io (cover album)

Iniziamo dal nuovo disco. Quanto c’è di autobiografico?

«Tantissimo. Parla di me, come hanno parlato di me i miei nove dischi precedenti. Racconto quello che ho vissuto, trasformandolo in canzone e sperando che chi ascolta ci si ritrovi a suo modo. Ho una concezione profondamente egoista su questo, ma estremamente empatica. E' un lavoro molto rock, genere che mi risveglia energia. Lo vedo come un disco motivazionale».

Perché? 

«La musica è sempre stata terapia e reazione. Visti gli ultimi anni complicati, anche per la pandemia, in queste 12 tracce ho voluto dare una direzione decisa, chiara, asciutta, senza fronzoli, senza distrazioni. Il disco lo sento potente, o almeno mi auguro che lo sia».

Parla di reazione: ci sono più rimpianti o più rimorsi? 

«Non ho rimpianti, non ho rimorsi. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto in buona fede e non cambierei nulla». 

"Gioco in difesa ma corro in attacco": quindi attacca o subisce?

«Era una frase riferita alla mia passione per il calcio. Sono nella Nazionale Cantanti e tifoso della Juve. Ma se la sua domanda è rivolta a come sono nella vita, la risposta è che non attacco. Chi attacca è un debole sotto finte spoglie dell'essere duro». 

Arriviamo all’episodio del Festival. Parla di giornalismo che fa chiacchiere da bar. Si è sentito criticato?

«Deriso. Non mi sento colpe, non ho fatto niente di male e non l’ho trovato giusto. Non voglio generalizzare, ma una parte della stampa è stata superficiale con me. Uno che fa il mio lavoro vuole parlare di musica. Amo leggere i giornali e parlare con i giornalisti. Ma a volte si esagera». 

C’è un processo in corso che darà sentenza. Umanamente ha superato l’accaduto?

«No. Non ci riesco e ci soffro ancora. "Per fortuna che c’è la musica", come recita il titolo dell'album, oltre che la mia famiglia meravigliosa e i miei due figli, Tito e Zeno a cui dedico le due tracce strumentali. Se non avessi avuto tutto questo non so come sarei stato. Ho cinquant'anni, sono cresciuto con il punk e con il grunge, sono temprato. Ma mi ci vuole ancora tempo. Non mi è passato, sono stato violato. E' stata una roba tremenda. Scioccante»

Non è il caso di fare pace almeno con se stesso? 

«E’ il tempo che lo farà. Le emozioni non si possono controllare, non si accendono o spengono come fossero un interruttore. Ci sto provando e questo è un disco positivo, pieno di vita e che respira contemporaneità, scritto negli ultimi due anni. C’è dentro amore ma anche rabbia, ira ma anche divertimento. Ho iniziato a vivere nuovamente quando sono entrato in studio, con i miei musicisti, con gli accordi e con gli spartiti». 

BUGO (ph. credit Mehmet Gurkan)

Il disco inizia con “Sono un padre sono un figlio una gran testa di cazzo, sarò pure sbagliato”: cosa è una più o meno ironica ammissione di colpa?

«E’ un modo per dire che anche io non sono perfetto. Mi piaceva il suono delle parole. Dico pure che sono a volte "arrogante". Non potevo dire di essere alto e bello (ride, ndr). Accettarsi per quello che siamo, con gli sbagli. Con il pubblico bisogna essere onesti. A volte sono amorevole e simpatico, a volte meno. Ognuno si fa poi il suo viaggio. Non si può non sapere stare al mondo. A volte manchiamo di autostima. E io me lo ripeto: per fortuna che ci sono io». 

Parla della fragilità di oggi?

«La depressione non è solo dei tempi di oggi.

Anche ai miei tempi c’era. La differenza è che se ne parla di più. La sofferenza mentale cui si dà poco peso rischia di creare danni. Nei giovani e nei più fragili». 

I social hanno contribuito al disagio? 

«Non credo sia colpa dei social. Però il potere della parola è determinante. Il problema è il come si comunica che, molto spesso ahimè, non dà peso ai valori. E se non hai valori, alla prima sberla crolli. L’impressione che ho è che la società e la famiglia non diano abbastanza importanza alla forza del carattere. Così giovani rapper o di cantanti non ce la fanno. Bisogna ricordarsi che il carattere viene prima del talento». 

Parla di Sangiovanni?

«Mi ha colpito tantissimo la storia di questo ragazzo. Ha avuto un grande coraggio ed è un bell'esempio. Ha messo prima se stesso e la sua sanità mentale, e poi tutto il resto. Vorrei tanto parlarci». 

C’entra la pressione della discografia?

«Non si può dare la colpa alla discografia. Non ci si può deresponsabilizzare. Non è colpa degli altri. Il mio primo disco è uscito quando avevo 27 anni, ero sicuramente più strutturato,  più aggressivo, cresciuto come ho detto prima con il punk e il rock. Ognuno di noi deve trovare le armi di autodifesa. Non possiamo trovarci alibi per giustificarci e giustificare. E’ vero che il sistema fagocita, magari ha fagocitato anche Sangiovanni, ma anche ai miei tempi era così. Non serve solo cantare bene. Vedi Bob Dylan o John Lennon. Ripeto, conta di più il carattere».

Ghali ha postato uno scritto in cui si dice deluso da tanti artisti che avrebbero la penna per dire qualcosa ma poi stanno silenzio, pensado a like, ai follower e a essere cool. Che pensa?

«Ghali mi sta molto simpatico e lo rispetto. E se vuole parlare di politica, ha tutto il mio appoggio. Ma credo che vada rispettato anche chi non vuole parlare di temi attuali. Sul fatto che l'artista pensa a essere cool, è sempre stato così. E se negli anni ’60 si seguivano più ideali politici era perché andava di moda». 

Lui prosegue un discorso iniziato all'ultimo Festival

«Si. Se lui e Dargen vogliono parlare di politica lo devono fare. Ma l'arte è libera, come l'artista deve esserlo e deve fare ciò che si sente. Il rischio, e lo dico davvero con grande affetto, è che agli occhi del pubblico si può sembrare ruffiani. Io non penso ai like ma nemmeno parlo di politica. Ma nemmeno Vasco mi pare che lo faccia. Ci sono artisti che vogliono parlare con cuore, pancia e mente. Ogni artista deve avere la sua sensibilità di affrontare la musica come vuole, senza sentirsi a disagio se decide di non esporsi o di non prendere posizione». 

Il rock di Bugo, quello di questo disco di cui parlava prima, come si inserisce nel momento musicale attuale?

«Da mosca bianca. Ma il rock non bada a mode e classifiche. Si dice che oggi c'è poco rock, invece, secondo me, ce ne è tanto. Questo disco è diverso dal precedente, come sarà diverso dal successivo. A me tiene vivo il cambio di genere. Qui c'è tanta essenzialità della chitarra, tanta asciuttezza che mi serviva. Punk, grunge, ti danno la forza di dare una scarpata alle cose brutte. Il rock nasce per esprimere un disagio. Qui il mio scopo è più puro». 

Su Wikipedia c’è scritto, e cito testualmente, che lei è il pioniere di un nuovo cantautorato italiano, artista che ha in qualche modo traghettato la canzone impegnata degli anni 1970 verso la disillusione degli anni 2000. E' d'accordo?

«Pioniere non lo so. Nel 2000 volevo reagire alla musica alternariva italiana delle band anni ’90 che non mi piaceva per niente. E’ vero che volevo riallacciarmi a quel cantautorato, volevo rinfrescare la figura del cantautore che era sparita». 

Amadeus l'ha sentito? 

«Poco. Gli manderò il vinile e gli chiederò che ne pensa». 

Cosa c'è in programma nei suoi prossimi mesi?

«La promozione di questo album e un tour estivo. Non vedo l'ora. Sono carico». 

Ha un sogno? 

«Sì. Di stare bene». 


Ultimo aggiornamento: Venerdì 22 Marzo 2024, 16:28
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