Jodie Foster, prima e dopo (e durante) Cannes: «Ho capito che avevo qualcosa di importante da dire»

Jodie Foster, prima e dopo (e durante) Cannes: «Ho capito che avevo qualcosa di importante da dire»

di Alessandra De Tommasi

Di solito è di poche, anzi pochissime parole eppure Jodie Foster al 74° Festival di Cannes sembra un fiume in piena. Ha aiutato certamente la vittoria della Palma d’oro d’onore, anche se su questo palcoscenico ha già ricevuto gloriosi riconoscimenti, a partire da quando ha presentato Taxi Driver di Martin Scorsese sulla Croisette.

Ora ha deciso di rallentare i ritmi lavorativi, si gode la famiglia e il meritato riposo dopo la frenesia di una carriera multitasking, davanti e dietro la macchina da presa. Questa splendida 58enne californiana calca le scene da quasi mezzo secolo e, complice la pandemia e le maratone di film casalinghe, ha riscoperto il fascino della normalità. Tranne, ovviamente, quando illumina il tappeto rosso dell’evento cinematografico dell’anno.

Cosa ricorda della sua prima volta a Cannes, negli Anni Settanta?

Non l’ho mai raccontato pubblicamente perché mi fa star molto male solo a ripensarci, ma ho rischiato di non partecipare al festival, all’ultimo minuto mi stavo tirando indietro. Proprio mentre stavo per partire il mio cagnolino, Napoleone, uno Yorkshire terrier adorabile, è caduto dalle scale ed è morto. Io ero lì, per terra accanto a lui, lo stringevo tra le braccia e, piena di sangue, non volevo saperne di muovermi. Mi ha convinto mamma, per fortuna.

E poi com’è andata?

Sull’aereo ci ho pensato per tutto il tempo e mi sono detta che quell’evento avrebbe svoltato la mia vita eppure mi è costato un prezzo molto alto, la creatura che più amavo al mondo. Alla fine Taxi Driver ha vinto e ho capito che nella vita le esperienze possono essere tragiche e comiche allo stesso tempo.

Secondo lei a cosa è dovuta quella (meritatissima) vittoria?

Il film ha segnato un’epoca traghettando il cinema nella Golden Age americana. E al tempo stesso mi ha attirato molte critiche perché mi dicevano che ero troppo giovane per interpretare una prostituta. Quando girava Il silenzio degli innocenti si è resa conto del cult che sarebbe diventato? Ho capito che aveva qualcosa di importante da dire, anche se mi preoccupavo alcune sequenze divertenti che avevamo girato per smorzare la tensione. Non mi sembravano adatte ad un film in un cui i maschi uccidono le donne. Ora preferisce stare dietro la macchina da presa piuttosto che davanti.

Come mai?

Ho deciso di lavorare meno rispetto al passato e di dedicare più tempo alla mia vita personale.

In passato ho fatto tanto, anzi troppo, tutto insieme. Eppure era sempre dietro l’angolo la sensazione di fallimento perché i miei film al botteghino non hanno mai fatto incassi da urlo, fattore cruciale per essere considerati a Hollywood.

I soldi prima del talento?

Una volta sono stata avvicinata due giorni dopo l’uscita in sala di un mio film. Mi hanno praticamente dato le condoglianze per il fiasco al box office e io ero davvero in difficoltà e in imbarazzo perché amo fare film indie e di qualità.

Quale regista le ha lasciato il segno?

David Fincher (Panic Room) mi ha insegnato il mestiere più di tutti, non ha eguali dal punto di vista tecnico. Mi ha mostrato che si può sbagliare ma devi comunque tenerti stretto le tue idee. Il più singolare? Neil Jordan (Il buio dell’anima) crede molto nel flusso di coscienza, mette su delle prove quasi teatrali e ti riempie di domande sul personaggio, anche di tipo ordinario.

Ad esempio: ha un cane o un gatto?

Sono dettagli semplici, eppure hanno senso in quel ruolo.

Cosa la attrae in una parte?

La ricerca di verità, capire cosa lo muove e cosa ti arriva. Magari non lo comprendo subito e ci arrivo durante le riprese o dieci anni dopo ma tutto ha un senso.

Un attore che ha amato dirigere?

Mel Gibson in Mr. Beaver: si fida ciecamente di me sa che non lo potrei mai ferire. D’altronde un regista è come un genitore che allena i figli e se fanno qualcosa di sbagliato li aiuta a capire l’errore, magari con una ramanzina, ma il bene non è mai messo in discussione. E poi lui ha un istinto infallibile del genere “buona la prima”, un vero razzo.

A Cannes anni fa ha portato Money Monster dove ha diretto Julia Roberts e George Clooney. Cosa ricorda di quell’esperienza?

Ricordo che la casa di produzione lo ha voluto trasformare in un thriller contro il mio parere. Quello che colpisce è la paura del fallimento di questi tre uomini, alle prese con la loro vulnerabilità. Il prossimo desiderio da realizzare? Girare un bel film francese trasferendomi per un po’ nei paraggi. Chiedo troppo?


Ultimo aggiornamento: Giovedì 8 Luglio 2021, 22:31
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