Ucraina, la missione di aiuto: «Con Arca al confine ucraino, la grande dignità dei profughi che hanno perso tutto»

Ucraina, la missione di aiuto: «Con Arca al confine ucraino, la grande dignità dei profughi che hanno perso tutto»

di Simona Romanò

All’ottavo giorno di missione al confine fra Romania e Ucraina. Il convoglio di aiuti umanitari della Fondazione Progetto Arca è stato il primo, da Milano, a raggiungere l’Est Europa. «Con cinque  furgoni, compreso il nostro camper e la nostra cucina mobile, carichi di materiale umanitario, siamo partiti lunedì scorso e ora siamo al campo nella cittadina di Siret, a un chilometro dalla frontiera ucraina. Fa molto freddo, la temperature scende a meno 8 gradi di notte e nelle prossime ore è attesa ancora la neve». A raccontare è il presidente di Arca, Alberto Sinigallia, che coordina i soccorsi e dialoga con le istituzioni locali per facilitare i ricongiungimenti familiari di chi scappa dai bombardamenti. «Siamo il primissimo punto-aiuto per gli ucraini che oltrepassano il confine. In meno di mezz’ora, dalle prime bombe alla consapevolezza che il conflitto era iniziato, la loro vita è cambiata, forse per sempre».

Sinigallia, dove siete esattamente?

«Siamo in una struttura sportiva riconvertita. Nell’edificio del campo da calcio accogliamo mamme con bambini che hanno lasciato gli uomini a difendere la propria terra, anziani soli, persone fragili e disabili che, a fatica, hanno superato il confine. Nella palestra, invece, abbiamo gettato a terra dei materassi per gli studenti indiani che frequentavano il Politecnico di Kiev: man mano ritornano a Nuova Delhi attraverso un ponte aereo organizzato dalla loro ambasciata. Inoltre, abbiamo montato le tende per depositare i bagagli, ma è impossibile dormirci dentro, perché il freddo è intenso».

Quanti profughi arrivano ogni giorno?

«In centinaia, anche 500 o 700. Rimangono un paio di giorni: mangiano, si scaldano, si riposano in attesa di proseguire in pullman verso le nazioni europee, fra cui l’Italia, che sono pronte ad ospitarli.

I più fortunati attendono i parenti che arrivano con la propria auto per metterli in salvo. E il campo si riempie e si svuota a ondate».

Cosa accade alla frontiera?

«È una bolgia, la tensione è alle stelle. Ci sono ucraini che hanno atteso sette, otto ore; altri anche due giorni, in coda, senza dormire né mangiare, sotto le neve, prima di superare i cancelli ed essere trasferiti, ormai stremati, da noi. Ognuno di loro sta vivendo una storia drammatica, di abbandoni, ansia, incertezze».

Per esempio?

«Ci stiamo organizzando per portare dieci orfani a Milano, all’Abbazia di Mirafiore, gestita da Arca. E mi ha molto colpito un padre terrorizzato, indiano, che è arrivato da New York per aspettare il figlio: prima di abbracciarlo, si è inginocchiato davanti a noi, commosso».

Con quale stato d’animo arrivano al campo?

«Ai bambini restituiamo il sorriso facendoli giocare. Per gli adulti è molto dura, ma affrontano il dramma con dignità. L’adrenalina li fa andare avanti e placa la paura, però, rimane il senso di vuoto per aver perso tutto: non hanno più una casa, un lavoro, gli affetti. È stato un trauma anche aver abbandonato il proprio cane. Sono persone senza più un passato, il presente è sconvolto e non hanno prefigurazione del futuro: non sanno dove saranno fra un mese, uno o due anni. Se potranno rivedere i propri cari e ritornare in patria. È un sentimento di desolazione, peggiore della paura».

Quanto rimarrete a Siret?

«Finché ci sarà bisogno».


Ultimo aggiornamento: Lunedì 7 Marzo 2022, 09:45
© RIPRODUZIONE RISERVATA