Silvia Romano: «Non è vero che mi sono sposata. Mi sono convertita all'Islam, una mia scelta»

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di Simone Pierini
«Non sono stata costretta a sposarmi, convertirmi all'Islam una mia scelta», così Silvia Romano avrebbe confermato la conversione religiosa agli 007 dell'Intelligence italiana negando di esser stata costretta a sposarsi: ««Non c'è stato alcun matrimonio né relazione, solo rispetto»», ha detto. «Mi sono convertita all'Islam, è stata una mia libera scelta», le parole della cooperanta italiana liberata ieri.

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La Romano ha spiegato di essere stata «trattata bene» dai suoi sequestratori e di non aver subito violenze nei quindici lunghi mesi di prigionia trascorsi nelle mani dei jihadisti di Al Shabab in Somalia. La cooperante ha anche aggiunto di non essere stata costretta al matrimonio, smentendo le voci che si erano diffuse nei mesi scorsi. 
 
 


«Grazie, sto bene per fortuna. Sto bene fisicamente e mentalmente, ora voglio solo stare un pò di tempo con la mia famiglia, sono felicissima dopo tanto tempo di essere tornata». Sono le prime parole di Silvia Romano dopo il suo arrivo all'aeroporto di Ciampino.

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SILVIA ROMANO CON IL 'JILBAB', L'ABITO DELLE DONNE SOMALE

È un «jilbab» l'abito con cui Silvia Romano è scesa dall'aereo all'aeroporto militare di Ciampino dopo 18 mesi dal suo rapimento in Kenya. Una copertura tradizionale che non ha un forte connotato religioso sebbene sia comune in ambienti dell'Africa orientale dove è diffusa la fede islamica. «Quell'abito si chiama jilbab», ha notato Freddie del Curatolo, direttore di malindikenya.net, «il portale degli italiani in Kenya». «Non è un abito religioso ma chiaramente è indossato da donne islamiche», ha aggiunto. «È un abito più da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani», ha aggiunto il giornalista da 15 anni nel Paese africano. L'abito è verde, colore che solo in maniera controversa simboleggia l'Islam apparendo ad esempio sulle bandiere di Arabia Saudita, Algeria, Pakistan e della stessa Lega araba.

Il colore del Profeta era infatti il nero, come mutuato da Daesh (l'Isis) e il verde è solo un fatto culturale che indica quello che gli arabi del deserto non avevano: la verzura (nel Corano si parla del Paradiso come, verde anzi verdissimo) «Probabilmente si è vestita come ha potuto», ha ipotizzato Hamza Piccardo, un esponente di spicco della comunità islamica italiana. «Vedremo se continuerà così o troverà abiti più consoni al fatto di essere si musulmana ma anche italiana», ha aggiunto l'imam e traduttore del Corano. Il termine jilbab (o jilbaab) si riferisce comunque a qualsiasi abito lungo a largo indossato da donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile. Il «velo» islamico comunemente si chiama hijab, parola derivante da una radice verbale che vuol dire fra l'altro «rendere invisibile» o «coprire».

 
Ultimo aggiornamento: Lunedì 11 Maggio 2020, 08:10
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