Vasco Brondi: «Il mio pop impopolare sospeso tra l'apocalisse quotidiana e la voglia di uscirne fuori»

Oggi esce "Un segno di vita", album di tenace concetto narrativo e musicale. "Mi sono esposto con la mia voce più che negli album precedenti, qui canto tantissimo. E ho scelto maggiore ritmo rispetto alle ballad. La provincia? E' il segreto per stare legati alla realtà"

Vasco Brondi, arriva oggi il nuovo album: «Il mio pop impopolare sospeso tra l'apocalisse quotidiana e la voglia di uscirne fuori»

di Totò Rizzo

In «Un segno di vita», album di tenace concetto narrativo e musicale, che esce oggi per Carosello, si ha l’impressione che Vasco Brondi (in tour da Livorno il 5 aprile, in mezzo Roma il 16 e chiusura a Milano, 8 e 9 maggio), raccolga tutto quel che di buono ci è arrivato dagli anni Settanta a venire, con naturale predilezione del periodo a cavallo fra i due secoli anche se le Luci della Centrale Elettrica si sono spente da un po’. Dieci tracce senza smanie di ricerca compulsiva che puntano piuttosto alla bella scrittura, all’accordo tra la parola e un mood sonoro che possa accoglierne ed esaltarne il senso. Scriviamo che è un disco sincero? Scriviamolo.

«Piccolo manuale di pop impopolare», lo definisce. Perché?

«Perché un artista ha sempre questo rovello, non tradire sè stesso e arrivare comunque al pubblico. Con “Un segno di vita” volevo togliere certi strati in più, semplificare, essere più immediato. L’ho fatto sia esponendomi con la mia voce che è molto più presente rispetto agli album passati, sia scegliendo pezzi di maggiore impatto ritmico, molto movimentati più che le ballad che qui sono soltanto due».

Risultato?

«È difficile fare una hit con brani come questi che vanno sempre indagando sulla forma-canzone. Mi sono ispirato ai grandi maestri, penso a Battiato, a Battisti, allo stesso Paolo Conte che hanno operato la magia di essere profondi e popolari al tempo stesso. Credo di essere stato sincero al massimo, nessun artificio: attraverso le canzoni escono fuori le cose che ho dentro ma anche altre che non sapevo d’avere dentro».

Una sorta di diario dell’inconscio.

«Proprio così, un’intimità che diventa pubblica».

Da un lato ci sono fuochi e luci che accendono e illuminano un senso di ripartenza, dall’altro c’è più volte la parola apocalisse.

«È vero, è il cortocircuito che viviamo ogni giorno, l’apocalisse la sfioriamo quotidianamente, ne parliamo e al tempo stesso la rimuoviamo.

Però bisogna anche riconoscerli certi bagliori, distinguere quel che non è inferno dall’inferno stesso, non essere accecati solo da quello che non va».

In “Va’ dove ti esplode il cuore” ma anche in passaggi di altre canzoni è forte il senso della provincia.

«È per questo che non me ne sono mai allontanato. “La noia è la soglia delle grandi cose”, diceva Walter Benjamin. Ecco, nel concederti anche il tempo della noia sta la grandezza della provincia. Nel suo irretirti e nella voglia di uscirne per poi volerci tornare. Era l’aria che si respirava nei centri sociali negli anni ’90 a Ferrara e dintorni: “Porta quello che puoi trovare” era scritto su un cartello in uno di questi».  

Concedersi un tempo fuori dal mestiere di cantare: sembra il suo motto.

«Come le due ore di yoga e meditazione ogni giorno. Ma non sono fuori dal mio mestiere, ne fanno integralmente parte. Prendersi quel tempo ti addestra soprattutto ad essere soddisfatto e in una società come la nostra essere soddisfatti è un atto politico. È per questo che un anno lavoro ad un disco e l’anno dopo ho l’esigenza di fermarmi e di fare altre cose. Il problema è che ci hanno introiettato il modello produttivo delle macchine. Ma io non saprei espormi a certi ritmi, non  saprei sostenere certe tabelle di marcia, non potrei essere social 24 h. Voglio il tempo di un bicchiere nello stesso bar dove un tempo servivo i caffè».


Ultimo aggiornamento: Venerdì 15 Marzo 2024, 12:45
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