Addio a Sinéad O'Connor, la diva triste: una vita di successi e dolori

La cantante irlandese è morta a 56 anni

Addio a Sinéad O'Connor, la diva triste: una vita di successi e dolori

di Claudio Fabretti

Non ce l’ha fatta, Sinéad O’Connor, a reggere il peso di una vita diventata insostenibile, dopo un’effimera stagione di successi e trionfi mondiali. La cantante irlandese è morta ieri all’età di 56 anni. L’annuncio è arrivato da parte dell’Irish Times, senza aggiungere altri particolari sul decesso. O’Connor era da tempo alle prese con crisi depressive e pesanti problemi esistenziali e di salute. Nel suo ultimo post sui social media, aveva twittato una foto del figlio Shane, trovato morto nel 2022 a 17 anni, scrivendo: «Da allora ho vissuto come una creatura notturna non morta. Era l’amore della mia vita, la lampada della mia anima». Da anni, l’artista di Dublino combatteva con il suo insanabile dolore. Ieri è arrivato l’epilogo tragico che i fan temevano da anni, dopo le spaventose sofferenze che il destino aveva inflitto all’eroina di “The Lion And The Cobra”. Era l’esordio di Sinéad, anno 1988. Un esordio fulminante, che portò alla ribalta mondiale la ventenne cantautrice, col suo look sfrontato (calva, in abiti e pose post-punk) e una voce da brividi, capace di improvvise escursioni di registro, di acrobazie funamboliche e di acuti gutturali mozzafiato. Il resto lo facevano le sue canzoni, tanto veementi quanto tenere e pure, modulate attraverso un canto rabbioso e commovente per intensità e pathos. Folle, aggressiva, romantica, disperata, Sinéad O’Connor divenne in breve una delle grandi protagoniste del rock al femminile a cavallo tra la fine degli anni 80 e il decennio successivo.
Il suo grande successo è proseguito con “I Do Not Want What I Haven’t Got” (1990), l’album della sua canzone più celebre, quella cover disperata di “Nothing Compares 2 U” che fece rodere d’invidia il suo autore, un certo Prince, con il quale furono fulmini e scintille per anni. Poi altri grandi dischi, come la raccolta di cover di “Am I Not Your Girl?” (1992) e lo struggente diario femminile esistenziale di “Universal Mother” (1994). Quindi, un progressivo declino che l’ha portata sempre più lontana dalla ribalta del music business mondiale, a causa anche dell’ostilità dei discografici e dei suoi problemi personali.
Ma anche prima dell’aggravarsi della malattia, Sinéad non è mai stata un carattere facile.

Entrò nell’occhio del ciclone di media e addetti ai lavori nel 1992, quando strappò in diretta tv la foto di Papa Giovanni Paolo II durante il Saturday Night Live per protesta contro la politica repressiva attuata dalla Chiesa cattolica nel suo paese. Da allora iniziarono anche i suoi tormenti religiosi, che la portarono a gesti clamorosi: da farsi ordinare prete della chiesa cattolica Latin Tridentine (non riconosciuta dal Vaticano) nel 2000 con il nome di suor Bernadette-Marie fino a convertirsi all’Islam nel 2018 come Shuhada’ Davitt. Quindi, una sequenza terribile di crolli nervosi, crisi depressive, ricoveri in strutture sanitarie e dichiarazioni disperate ai media. Come quella contenuta in un video pubblicato l’8 agosto 2017 sulla sua pagina Facebook: «Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata - raccontava - Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel Travelodge in New Jersey e sono da sola. E non c’è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra». Una vita che si è spenta in una triste giornata di mezza estate, lasciando in tutti noi la consapevolezza che niente, ma proprio niente si potrà mai raffrontare al suo talento.


Ultimo aggiornamento: Giovedì 27 Luglio 2023, 06:15
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