Manuel Agnelli: «La band era una gabbia dorata ora voglio provarci a nome mio»

Il leader degli Afterhours in concerto a Rock in Roma

Agnelli: «La band era una gabbia dorata ora voglio provarci a nome mio»

di Totò Rizzo

Ricomincio da solo, ovvero ecco a voi Manuel Agnelli nel tour estivo di “Ama il prossimo tuo come te stesso”, il primo album da solista per il fondatore e frontman degli Afterhours dopo un trentennio e passa al timone del gruppo che ha dato una svolta alla musica italiana. «Il guscio della band è protettivo ma può trasformarsi in una gabbia dorata, gli After sono un brand con un pubblico super fidelizzato che, se non gli suoni quel tal pezzo al concerto, si incazza ed ha ragione come facevo io se ai suoi concerti Lou Reed non mi faceva quella tal canzone. È comodo, fa piacere ma è limitante», dice con la consueta schiettezza Agnelli che sabato 15 luglio è all’Ippodromo delle Capannelle per Rock in Roma.
 

 

Galeotto fu il lockdown.
«Non si poteva suonare insieme, così mi sono detto “ci provo da solo” e sono nati questi dieci brani, confrontandosi coi familiari, coi pochi amici che era possibile frequentare».

C’è pure la guerra in due delle canzoni dell’album.
«Coi grandi temi rischi la retorica, io ho cercato di schivare il pericolo filtrandoli attraverso il mio sguardo personale. La guerra, per l’appunto: del conflitto in Ucraina si parla solo in termini geopolitici, pochi pensano alla tragedia umana».

Il rock sembrava ormai avere la miccia bagnata, invece le nuove generazioni lo riscoprono.
«Il rock non l’ho mai vissuto come una religione, sono cresciuto studiando la musica classica, mi sono appassionato al jazz ma niente per me è stato più forte sul piano emotivo e comunicativo quanto il rock.

Però quel che abbiamo costruito noi negli anni ’80/’90 è stato svuotato di contenuti da quelli che son venuti dopo, è stato ridotto a estetica, a linguaggio innocuo, vuoto».

Gli steccati fra i generi sono stati abbattuti: un bene o un male?
«Non è stato un male sul versante creativo ma oggi ascolto dischi sempre meno potenti. La scena indipendente è poca roba: non manca il talento ma il linguaggio è snob ed elitario».

Chi le piace ascoltare?
«Gruppi post-punk, post-wave come gli Idles o i Fontaines D.C. ma anche band che mischiano elettronica, punk e rap».

Tra gli italiani?
«Motta, Brunori Sas, Iosonouncane, i Little Pieces of Marmelade che mi accompagnano in tour perché sono davvero bravi».

Nostalgia di “X Factor”?
«No, però mi ha permesso di avvicinarmi alle nuove generazioni, magari non sempre comprendendole ma dialogandoci, linguaggi diversi che parlavano tra loro. E poi mi ha dato credibilità presso gli addetti ai lavori che prima non mi avrebbero mai affidato un programma come “Ossigeno” su Rai3 e tanti soldi che ho investito in progetti culturali come “Germi” a Milano».

Si chiede mai, prima di salire sul palco, “chi me l’ha fatto fare”?
«Mai. Mi sento un privilegiato perché sono riuscito a fare quel che volevo, anche al di là delle aspettative. Però mi son fatto un mazzo così e nelle scelte sono stato sincero verso me stesso e il pubblico».

È una raccomandazione che fa anche a sua figlia Emma, in arte Vaselyn Kandynsky?
«Certo. E quando mi dice che suonando con i compagni della sua band si sente bene, come mi sentivo io suonando con i miei alla sua età, sono un padre contento».


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 12 Luglio 2023, 08:00
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