Baccini, il nuovo disco: «Dicevano che ero da pianobar, ma l'ironia in questo Paese è merce di serie B»

Il cantautore genovese e le sue hit in "Archi e frecce". "Vado ancora contro corrente, lontano dalla politica e dal politically correct".

Baccini, il nuovo disco: «Dicevano che ero da pianobar, ma l'ironia in questo Paese è merce di serie B»

di Totò Rizzo

Baccini come non lo avete mai ascoltato. «Mai come in quest’album mi sono sentito me stesso», dice il cantautore genovese. Quest’album è “Archi e frecce”, una serie di hit bacciniane dagli esordi (fine anni ’80) a ieri più due inediti e una cover di De Andrè. Spiega Baccini: «Tutte le mie canzoni sono nate al pianoforte per cui, dagli inizi, il mio vero problema è stata la ritmica, quasi un limite, basso e batteria per me erano alieni». Ergo, in questa versione tra cameristica e unplugged, con le quattro musiciste dell’Alter Ego String Quartet (collaborazioni da Sting a Bocelli, ad Allevi) e con gli arrangiamenti del chitarrista Michele Cusato, Baccini si è sentito al centro di «una formazione perfetta, liberissimo di spaziare da un genere all’altro» con le sue ballate ironiche che sembrano quasi strizzare l’occhio a Kurt Weill o vestirsi di citazioni colte o ancora di accenti popolari come certe mazurke o valzerini.

Come aver ritrovato un’identità perduta, Baccini?

«Proprio così. E una libertà espressiva che prima era magari filtrata da esigenze non strettamente musicali. Figurarsi: io che, già al primo album, avevo come ultimo dei miei pensieri quello di venderlo».

La discografia è anche un’industria.

«Però se fino agli anni ’80 ogni artista e il suo mondo erano facilmente riconoscibili – penso a Dalla, a Battiato – dagli anni ’90 in poi è stato tutto un omologare, un omogeneizzare. Oggi un artista lo riconosci più dalla voce che dal suo universo musicale. È un mondo ormai fatto di numeri su Spotify e di like sul web».

Come nasce l’idea di “Archi e frecce”?

«Poco più di un anno fa mi è capitato tra le mani il video dell’ultimo tour di Dalla, realizzato poco prima che morisse. Il suo repertorio in versione archi, clarinetto, pianoforte. Poi sono andato a riascoltarmi le stesse canzoni su disco. Cavolo, mi sono detto: in quel live era come se Lucio volesse tornare all’essenza di quello che aveva scritto, senza alcun orpello. Così ho pensato di tirar fuori dal cassetto alcuni miei vecchi pezzi più o meno noti e di riproporli accompagnato da due violini, una viola, un violoncello e una chitarra. Risultato: mi sono divertito moltissimo, libero da qualsiasi equivoco, fraintendimento».

Lei si è sentito frainteso?

«Fin dall’inizio. Dicevano che ero un cantante da pianobar. Ma che pianobar? Il fatto è che l’ironia in questo Paese è sempre stata considerata merce di serie B. Jannacci, ad esempio, è stato il nostro più grande poeta ma non ha avuto il riconoscimento che meritava perché giocava d’ironia. Pensi che il mio più grande successo è stato “Sotto questo sole” che in fondo è demenziale, quasi uno scherzo. C’è stato dell’altro, e di meglio, credo».

L’hanno etichettata, insomma, bollato a vita.

«Caterina Caselli – alla quale devo comunque molto – mi affidò a un produttore che voleva smussare se non addirittura cancellare la mia vena ironica. Mi diffidò dal farlo Vincenzo Mollica che mi disse: continua così, non cedere. Devo anche a lui se certi miei brani, dopo trent’anni, sono ancora cantati».

Parliamo dei due inediti. “L’equilibrista” è  una metafora della precarietà della vita.

«Siamo tutti equilibristi, tiriamo avanti camminando sul filo, consapevoli di poter venir giù da un momento all’altro».

“Il signore della notte” sembra un autoritratto, l’artista che vede il bicchiere sempre mezzo vuoto.

«D’altronde, se un artista fosse un uomo contento, che cosa scriverebbe? E poi sono un animale notturno da sempre, anche adesso, a 62 anni: certo non vado più in giro per locali, me ne sto a casa ma scrivo, suono, compongo. La notte è la parte più creativa delle mie 24 ore».

Tra cover rivisitate e inediti, tira aria di vecchia scuola genovese in quest’album più che in altri.

«È la voglia di tornare alla bella musica d’ascolto, forse, che è quella del cantautore.

Sono in controtendenza: oggi chi ascolta più? Non seguo le mode: sono un artista, non un artigiano. L’artigiano esegue su commissione».

È un omaggio a quella scuola anche la cover di “Ottocento” di De Andrè?

«Un omaggio ma anche il ricordo di un amico. Ero un po’ il consulente ironico di Fabrizio. Non che lui non lo fosse, ironico, ma a volte mi leggeva alcune sue cose inedite, mi usava da cartina di tornasole».

Baccini contro il sistema, anti-estabilishment, fuori dal giro e dal coro. Cosa passerà in radio di questo disco nuovo?

«Non so. So soltanto che un tempo la radio era uno strumento che ti dava suggerimenti sulla musica da ascoltare. Oggi, soprattutto i network, passano della roba improponibile, un suono unico, voci omologate e molte costruite sull’autotune».

Lei è stato duro anche con i talent.

«Sono discount di sogni, esci primario ancor prima di aver conseguito la laurea in medicina, diventerai anche famoso ma tanto la musica oggi è gratis, quasi ovunque, ti comprano a prezzi stracciati».

E Sanremo? Siamo fermi sempre all’ultimo invito di Carlo Conti nel 2015 poi sfumato?

«Sì, ma per fortuna non si vive di Festival: negli ultimi anni ci sono state le colonne sonore per il cinema, i libri, adesso il docufilm su Tenco per Amazon Prime ispirato al concerto che avevo dedicato a Luigi una decina d’anni fa».

Nel disco ripropone, tra i suoi classici, “Le donne di Modena” e “Fotomodelle”: oggi col politically correct avrebbero avuto vita dura.

«A parte il fatto che le due canzoni mettevano alla berlina la prima certi luoghi comuni maschili e l’altra un costume che sarebbe diventato di lì a poco un’ossessione, quello dell’immagine, il politically correct è una censura ancora più infima della censura, camuffata dalla scusa di difendere questa o quella categoria o minoranza. È l’anticamera della cancel culture, una forma di dittatura».

“Ho voglia di innamorarmi di uno straccio di ideale” cantava trent’anni fa. Oggi?

«Vorrei che l’avessero i ragazzi. Ogni tanto mio figlio Michael mi dice: “Papà, ti invidio, la tua generazione è stata fortunata”. I ragazzi di oggi spesso sono più vecchi di noi, figli di un consumismo totale, come rassegnati, senza sogni, al massimo quello di fare un po’ di soldi. Comunicano con gli emoticon e conoscono sempre meno parole e meno parole conosci meno libero è il tuo pensiero».

Sì, ma Baccini in politica da che parte sta?

«Per quel po’ che ci ho avuto a che fare, a 100 chilometri di distanza. Gli artisti sono anarchici. E anche un po’ apolidi. Prenda me: ho Genova nel cuore ma vivo sul lago di Como».

Sotto questo sole è ancora bello pedalare?

«In questo Paese si pedala sempre, e sempre in salita: siamo ben allenati per fortuna e ci aiuta, fin da piccoli, l’arte di arrangiarci».

Un pensiero – sportivamente affettuoso, la prego – per la Samp scivolata in B.

«Ma lei sa che io giocavo nella Sampdoria prima di essere tifoso del Genoa? Accadde che mio padre, genoano da sempre, quand’ero ragazzino mi affidò a un conoscente per portarmi a tirare quattro calci al pallone. Non sapeva che questo signore fosse sampdoriano. Siccome in porta ero bravino (tanto che in questo ruolo ci ho giocato vent’anni nella Nazionale Cantanti) mi presero nelle Giovanili e poi nella Primavera della Samp. Un incidente in campo, tre-quattro interventi, quasi due anni di ingessatura e stop alla mia carriera di calciatore. Mio padre, nel frattempo, muore e la prima volta che torno allo stadio è per una partita del Genoa. Lì ci fu come una chiamata, un’illuminazione. Chissà, forse, da lassù…».


Ultimo aggiornamento: Lunedì 15 Maggio 2023, 07:32
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