Alessandro Quarta: «Il mio violino “rock” per Bolle e i grandi del pop, ma senza studio non si arriva alla perfezione»

Ha scritto due assolo per il famoso ballerino, collaborato con le star della canzone internazionale, accompagnato Il Volo a Sanremo. A Cremona il 30 settembre una sua nuova creazione in prima mondiale

Alessandro Quarta: «Il mio violino “rock” per Bolle e i grandi del pop, ma senza studio non si arriva alla perfezione»

di Totò Rizzo

«A un anno e mezzo mi mettevo dietro la porta della stanza di mio fratello ad ascoltare i suoi esercizi al violino. Così mi diedero un mattarello e facevo finta che fosse lo strumento. A tre anni mi tolsero il mattarello e mi misero in mano un violino vero». Li racconta così, i suoi inizi, Alessandro Quarta, il “violinista rock” italiano più internazionalmente conosciuto anche se quel “rock”, appiccicato a mo’ di etichetta, ne traccia confini mentre lui è del tutto crossover e per lui «rock non è mica un genere, è una filosofia, come il taoismo». Fatto sta che il fratello, Massimo, dietro la cui porta Alessandro origliava, è diventato anche lui, qualche anno prima, un violinista famoso ma classico, concertista acclamato, accademico di Santa Cecilia; Alessandro, invece, ha scelto la trasversalità e, anche se lo osannano dagli auditorium moderni agli antichi teatri di pietra, non disdegna le collaborazioni pop, gli show tv con Morandi, Celentano, Fiorello e Panariello, gli spettacoli di danza di Roberto Bolle per il quale ha scritto due applauditissimi assolo suonati dal vivo mentre il danzatore balla, le alleanze creative con divi stranieri e italiani, da Lenny Kravitz a Celine Dion, da Carlos Santana a Liza Minnelli e poi Zucchero, Pausini, Ferro, Nannini, andare a Sanremo per accompagnare i tre del Volo. Ah, altro elemento importante: c’è anche una sorella Quarta che in realtà è la primogenita di questa famiglia musicale leccese, Patrizia, pianista, maestro collaboratore all’Arena di Verona.

 

Alessandro, l’unico in famiglia a ribellarsi all’accademia.

«No no, per nulla. Anzi l’accademia serve, eccome. Non si può ambire a certi livelli senza la dedizione alla perfezione. Io ho un mantra: attenzione maniacale alla cura dei dettagli. Ancora oggi faccio quattro ore al giorno di esercizi: scale, arpeggi… L’arte ha una natura analogica basata sul pensiero, sul fare, sulla manualità. D’accordo, ci sono i computer e l’autotune a darci una mano ma la bellezza passa attraverso lo studio, l’applicazione, il sacrificio. Poi, restare o meno nell’ambito di un percorso accademico, sta all’artista stesso. Ci sono tanti esempi, al violino: penso a Stéphane Grappelli o ad Itzhak Perlman».

Però lei fece scalpore quando apparve agli inizi degli anni ’90 in jeans, tatuato e pieno di bracciali col suo violino.

«Per alcuni fu quasi un’apparizione demoniaca. Ma io ho sempre creduto che alla musica classica vada tolto il frac per avvicinarla ai giovani, vada spogliata di una certa aura austera, portata per le strade affinché un ragazzo di 15 anni, ascoltando l’inizio della “Quinta” di Beethoven possa dire “però, che figata questo pezzo” proprio come fa con “Gossip” dei Måneskin».

Proprio coi Måneskin il rock sembra tornato in auge.

«C’è un ritorno a quello che magari per comodità si chiama vintage: nella musica così come nella letteratura o nella moda. C’è il fascino di quell’oscurità, di quelle ombre che abbiamo perduto. Il rock ha attraversato una crisi di identità, ha sofferto così come ha sofferto la musica classica, adesso sta recuperando».

Motivo di questa crisi?

«Una differenza sostanziale rispetto ai decenni precedenti: negli anni ’60 e ’70 ascoltavamo Elvis e i Beatles, gli Stones e la Fitzgerald ma tutto era sempre riconoscibile.

Poi, via via, l’omologazione, la strada del successo sempre più facile, un consenso spesso acritico, incondizionato. Siamo rimasti ancorati alla fine del secolo scorso e abbiamo forse sottovalutato quel che di buono, pure, poteva offrire questo primo ventennio del nuovo».

Com’è nata la collaborazione con Roberto Bolle?

«Grazie alle nostre rispettive manager. La mia, un giorno mi chiama e mi fa: “Bolle vorrebbe che tu gli scrivessi la musica per un assolo coreografico che ha in mente su Dorian Grey. Rileggo e rileggo il romanzo di Wilde, non esce fuori una nota. Poi vado su YouTube e guardo tutti i video degli spettacoli di Roberto, dal classico al contemporaneo. Pianoforte, spartito, matita. In una notte ho scritto tutto. Gli ho inviato il pezzo, silenzio. Nessuna risposta. Qualche giorno dopo arriva una e-mail: “Bravo! È perfetto”. Pubblico in delirio. Tanto che, quando mi ha chiesto di scrivergli la musica per un altro assolo, mi sono trovato in difficoltà: e se non dovesse ripetersi il miracolo? Così gli ho costruito sopra, sartorialmente, come un sarto fa con un abito, “Etere”, il brano che ancora mancava al mio progetto sui cinque elementi (gli altri sono “Aria”, “Acqua, “Terra” e “Fuoco”) che presenterò in prima mondiale il 30 settembre a Cremona».

E intanto continua il tour con suo fratello Massimo, il violinista “in frac” e quello “in jeans”.

«Erano anni che ci chiedevano: quando fate qualcosa insieme? Ma lui aveva la sua carriera, io la mia… Così, in un momento in cui ci siamo trovati entrambi liberi. abbiamo pensato a questo concerto, non il solito programmino in cui ognuno fa le sue cose o ci si scambia i repertori, ma un modo di affrontare insieme la musica, dai grandi classici – Bach e Vivaldi – a brani appositamente scritti per noi dalla compositrice Silvia Colasanti e da Simone Braconi, prima viola alla Scala, più una mia suite. Risposta del pubblico entusiastica».

Avete mai pensato di coinvolgere in un trio vostra sorella Patrizia col suo pianoforte?

«Come no? Ma è difficile. Patrizia lavora in una grande Fondazione lirica come l’Arena, è una bravissima musicista ma timbra il cartellino in teatro, è sempre molto impegnata. Però certo che ci piacerebbe, altro che…».

Tra le star del pop con cui ha collaborato, con chi è scattata maggiormente la molla dell’empatia?

«Su tutti dovrei nominare due donne. La prima è Dee Dee Bridgewater alla quale mandai degli arrangiamenti in prova. Mi chiamò piangendo: “Voglio che i prossimi dischi me li arrangi tu”. Considerando che in quel campo il suo “tutor” è  un genio quale Quincy Jones… E poi Amii Stewart, voce strepitosa, con la quale c’è in fieri un progetto per percorrere insieme le strade del pop-jazz».

Lei in scena, suonando il suo violino, salta, balla, corre per il proscenio, è quasi un performer. Cosa scarica in tutta questa energia?

«Il mio senso di libertà, il mio essere me stesso. Per tanti anni alle audizioni – e un musicista ne fa a decine! – ci siamo sempre chiesti con angoscia come dovessimo suonare Mozart, Bach, Vivaldi. Ma noi siamo interpreti e se tu non metti te stesso, sul palco, non metti nulla, non riesci a prendere il cuore della gente, non riesci a traghettarlo dalla sponda della gioia a quella della tristezza e viceversa. Un artista è grande quando, svegliandosi la mattina, è consapevole che tutto è già stato scritto, può solo reinterpretare, riscrivere».

Quarta, da musicista no-limits, qual è  il nuovo tabù da infrangere?

«Suonare il primo movimento della “Quinta” di Beethoven in uno stadio con 100 mila persone, in gran parte giovani».

Appuntamento a San Siro, allora?

«Chissà…».


Ultimo aggiornamento: Giovedì 3 Agosto 2023, 09:06
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