È una donna ad incastrare il killer di Diabolik. Prima in una intercettazione punta il dito contro il sicario. Poi ribadisce il concetto in qualità di testimone, quando le forze dell’ordine stringono il cerchio. Lei è la proprietaria della pistola usata, a sua insaputa, per uccidere Fabrizio Piscitelli, narcotrafficante, boss e capo ultras degli Irriducibili, il 7 agosto del 2019 al parco degli Acquedotti a Roma. Il 52enne argentino Raul Esteban Calderon è il runner che punta la pistola alla nuca di Diabolik preme il grilletto e scappa, lasciandosi alle spalle il cadavere di uno dei più potenti criminali, fino a quel momento, di Roma.
LA TELEFONATA
Il passo falso Calderon lo compie in una telefonata, ad ascoltare la conversazione ci sono i poliziotti della Squadra mobile. L’argentino nega le accuse. Ma la donna con cui dialoga punta il dito contro di lui. Ci sarebbe stato un furto dell’arma da parte dell’argentino. Gli rinfaccia che l’arma usata per assassinare Piscitelli era la sua. E che lui, Calderon, l’aveva impiegata senza dirle nulla. La pistola a quel punto scottava troppo. Inservibile. Di questo si lamenta la signora. Calderon però non ammette, anzi ribatte, le dice che è una matta che non è vero che lui ha sparato e tanto meno a Piscitelli. Tuttavia il perimetro intorno all’uomo si stringe sempre di più. Anche perché la donna diventa una testimone degli investigatori. Di fronte agli inquirenti ammette tutto. Il puzzle è quasi completo. Ecco, allora, che gli inquirenti ritornano sul video estrapolato dalle telecamere di sicurezza che immortalano la fuga del killer. Dopo un’approfondita analisi l’esito a cui arrivano è semplice: la figura ripresa dalle telecamere per movenze e corporatura può essere benissimo quella di Raul Esteban Calderon. È ciò che la Squadra mobile voleva sentirsi dire. A questo punto scattano le manette e poco dopo il gip conferma l’impianto accusatorio.
IN CARCERE
Prima della donna, che si rivelerà una testimone chiave, il nome del killer spunta in carcere.
LE IPOTESI
Ci sarebbe, infatti, un filo rosso che lega prima l’omicidio di Diabolik del 7 agosto del 2019 e poi la successiva gambizzazione di Leandro Bennato il 14 novembre dello stesso anno. Il boss, in questo caso, non muore. A morire, invece, sarà Selavdi Shehaj, l’albanese di 38 anni vicino a Diabolik e alla sua “famosa” batteria di picchiatori albanesi. Shehaj viene ucciso a colpi di pistola il 20 settembre del 2020 in una spiaggia di Torvaianica. In altre intercettazioni la gang di Primavalle si lamenta per mala gestione di partite di marijuana da parte degli albaneis. Ad assassinare Selavdi, per la Mobile, sono proprio Enrico Bennato e Calderon, arrestati nei giorni scorsi con l’accusa di concorso in omicidio aggravato dal metodo mafioso. Diabolik, però, poteva vantare anche altri nemici. Come un potente narcos con cui avrebbe cercato di riappacificarsi senza successo, poco prima di essere ucciso, grazie alla mediazione di Raffaele Purpo, conosciuto come er Mafia. Nessuno, però, ragionano gli investigatori, si sarebbe mai permesso di fare fuori Diabolik senza il permesso della Camorra. Camorra che fino al 7 agosto 2019 aveva sempre protetto l’ultras della Lazio.
Ultimo aggiornamento: Domenica 19 Dicembre 2021, 00:16
© RIPRODUZIONE RISERVATA