Se io fossi stato al posto di Eugenia Roccella, mi dice un ex senatore democristiano, figlio del Novecento, avrei chiesto alla polizia di sgomberare i contestatori e poi avrei fatto il mio intervento. E sai che sarebbe accaduto? – gli chiedo. Già li vedo i racconti prevalenti sui media: il potere clerico-fascista attenta alla libertà di manifestare! La verità – gli faccio notare – è che il potere politico oggi può esercitarsi solo nel vittimismo. Rinunciando a partecipare e invocando la solidarietà contro il ricatto delle minoranze intolleranti. È quanto hanno fatto ieri mattina alcuni ministri, bissando il forfait della Roccella.
Se c’è una differenza netta tra questo Sessantotto posticcio e caricaturale, e quello vero, sta nella sostanziale assenza di autorità che lo circonda. I ragazzi di Valle Giulia sfidavano quella dei padri, dei professori, dei potenti del Palazzo, per rompere il patto tra capitalismo e istituzioni che aveva irregimentato le società con una rigida morale borghese, e aveva portato dopo la guerra vent’anni di benessere e welfare.
Oggi non c’è più nulla da rompere. È tutto rotto. Il dirittismo, mistica laica di diritti senza doveri, abbaia a fantasmi di limiti e di divieti che non esistono, e di cui pure si avverte un segreto bisogno. Perché l’abbaiare è forte, quanto deboli sono le identità collettive.
Ecco il punto. I figli del sé, come li chiama con efficace metafora Massimo Adinolfi sul Messaggero di ieri, cercano invano il luogo indicato da Pasolini «dove tutto è proibito». Lo cercano per contestare e per esistere, per percepire un’identità che gli sfugge, in quell’adolescenza dove tutto è finalmente diventato possibile e tutto allo stesso tempo è drammaticamente difficile da decidere. Perché, in assenza di limiti e di canalizzazioni culturali, troppe paiono le scelte da compiere. Non deve stupire. Più infelice di un’esistenza di privazioni e rinunce, c’è solo un’esistenza fluida.
Qui la politica italiana offre ai giovani il più scellerato dei soccorsi.
Con i simboli sbiadiscono anche i principi. Il diritto di parlare è inteso come «privilegio di chi sta sopra. Chi è al governo può essere contestato, perché decide politicamente e burocraticamente dei corpi di cittadine e cittadini». Sono parole della scrittrice e ideologa Chiara Valerio. Nella sua rappresentazione quantitativa dei diritti e della vita (quest’ultima ridotta alla sua dimensione materiale), c’è una sperequazione tra chi, stando a Palazzo, ha più libertà di chi sta in strada. Non lo si dice esplicitamente, ma si lascia intendere che questa sperequazione va colmata. Costi quel che costi? Anche con la censura, o con il bavaglio violento delle parole? Ma che accade se il fine torna a giustificare i mezzi?
Al tempo in cui la guerra ci gira attorno, rischiamo di fare nostra la sua sinistra grammatica. Stiamo attenti agli equivoci, la campagna elettorale è appena iniziata.
Ultimo aggiornamento: Sabato 11 Maggio 2024, 12:41
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