L’editoriale Quel ‘68 posticcio contro i fantasmi

L’editoriale Quel ‘68 posticcio contro i fantasmi

di Alessandro Barbano

Se io fossi stato al posto di Eugenia Roccella, mi dice un ex senatore democristiano, figlio del Novecento, avrei chiesto alla polizia di sgomberare i contestatori e poi avrei fatto il mio intervento. E sai che sarebbe accaduto? – gli chiedo. Già li vedo i racconti prevalenti sui media: il potere clerico-fascista attenta alla libertà di manifestare! La verità – gli faccio notare – è che il potere politico oggi può esercitarsi solo nel vittimismo. Rinunciando a partecipare e invocando la solidarietà contro il ricatto delle minoranze intolleranti. È quanto hanno fatto ieri mattina alcuni ministri, bissando il forfait della Roccella.
Se c’è una differenza netta tra questo Sessantotto posticcio e caricaturale, e quello vero, sta nella sostanziale assenza di autorità che lo circonda. I ragazzi di Valle Giulia sfidavano quella dei padri, dei professori, dei potenti del Palazzo, per rompere il patto tra capitalismo e istituzioni che aveva irregimentato le società con una rigida morale borghese, e aveva portato dopo la guerra vent’anni di benessere e welfare.

Oggi non c’è più nulla da rompere. È tutto rotto. Il dirittismo, mistica laica di diritti senza doveri, abbaia a fantasmi di limiti e di divieti che non esistono, e di cui pure si avverte un segreto bisogno. Perché l’abbaiare è forte, quanto deboli sono le identità collettive.

Ecco il punto. I figli del sé, come li chiama con efficace metafora Massimo Adinolfi sul Messaggero di ieri, cercano invano il luogo indicato da Pasolini «dove tutto è proibito». Lo cercano per contestare e per esistere, per percepire un’identità che gli sfugge, in quell’adolescenza dove tutto è finalmente diventato possibile e tutto allo stesso tempo è drammaticamente difficile da decidere. Perché, in assenza di limiti e di canalizzazioni culturali, troppe paiono le scelte da compiere. Non deve stupire. Più infelice di un’esistenza di privazioni e rinunce, c’è solo un’esistenza fluida.

Qui la politica italiana offre ai giovani il più scellerato dei soccorsi.

Li illude che sia possibile tornare a definirsi nel conflitto sui valori dei padri. E mette in scena una pantomima tragicomica, perché sostanzialmente priva di alcuna autenticità. La mobilitazione repubblicana contro il nuovo fascismo arrembante è credibile quanto un gioco di ruolo. Si recita a soggetto da entrambe le parti con facilità, perché il copione è scritto nella memoria di una classe dirigente piccola piccola. Ma ha un prezzo. Nella sua falsificazione della realtà naufragano le coordinate civili di comunità. I simboli prima di tutto, come il 2 giugno, approdo repubblicano della lotta di liberazione, conquista di un Paese finalmente disarmato. Riavvolgendo la storia all’indietro, il nuovo conflitto lo trasforma in una resistenza repubblicana contro il riemergere dei fantasmi del passato. Così la Festa della Repubblica democratica si annuncia, con la sinistra in piazza, come l’acme di una tensione elettorale centrata sul disconoscimento dell’avversario.

Con i simboli sbiadiscono anche i principi. Il diritto di parlare è inteso come «privilegio di chi sta sopra. Chi è al governo può essere contestato, perché decide politicamente e burocraticamente dei corpi di cittadine e cittadini». Sono parole della scrittrice e ideologa Chiara Valerio. Nella sua rappresentazione quantitativa dei diritti e della vita (quest’ultima ridotta alla sua dimensione materiale), c’è una sperequazione tra chi, stando a Palazzo, ha più libertà di chi sta in strada. Non lo si dice esplicitamente, ma si lascia intendere che questa sperequazione va colmata. Costi quel che costi? Anche con la censura, o con il bavaglio violento delle parole? Ma che accade se il fine torna a giustificare i mezzi?

Al tempo in cui la guerra ci gira attorno, rischiamo di fare nostra la sua sinistra grammatica. Stiamo attenti agli equivoci, la campagna elettorale è appena iniziata.


Ultimo aggiornamento: Sabato 11 Maggio 2024, 12:41
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