Mori indagato, l’incontro a Chigi e il pressing di FI: ispettori a Firenze. La rabbia del governo

Gli azzurri chiedono il pugno duro nelle riforme sui pm

Mori indagato, l’incontro a Chigi e il pressing di FI: ispettori a Firenze. La rabbia del governo

di Francesco Bechis

«Sconcerto», rabbia. Chi conosce Alfredo Mantovano sa anche che raramente, molto raramente perde le staffe. Freddezza e lucidità gli hanno ritagliato un ruolo insostituibile a Palazzo Chigi, la regia di tanti delicati dossier che danno corpo all’agenda Meloni, inclusa la giustizia. Con Mario Mori però c’è un rapporto personale, lungo venticinque anni. La notizia di una nuova indagine a carico del generale dell’Arma dei Carabinieri ottantacinquenne, ex capo del Sisde, con accuse pesantissime - strage, associazione mafiosa e terrorismo - , l’avviso di garanzia a Mori nel giorno del suo compleanno sono la goccia che fa traboccare il vaso. «Una persecuzione», così definiscono a Palazzo Chigi l’ennesima indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia e l’ex capo dei Ros che la mafia ha combattuto negli anni delle stragi e le bombe: «Vogliono che muoia da indagato». Di qui la scelta di fare due gesti plateali.

LE REAZIONI

Il primo: convocare il generale a Palazzo Chigi, esprimergli di persona la solidarietà nelle ore in cui torna a materializzarsi l’incubo di un via vai nelle aule di tribunale, per accuse uguali o simili a quelle da cui è stato già assolto. Il secondo gesto: vergare una nota durissima contro quella magistratura che, come «tutte le istituzioni», dovrebbe esprimere «gratitudine» per «gli straordinari risultati» raggiunti in carriera da Mori.

È una presa di posizione insolita per chi, Mantovano, ex magistrato, si è cucito addosso l’immagine del mediatore. Determinato a voltare pagina con la riforma della Giustizia italiana, anche con scelte scomode e contestate: porta la sua firma l’introduzione dei test psicoattitudinali per i magistrati, odiatissimi dalla categoria. Ma è sempre il suo telefono a squillare quando c’è da trovare un compromesso. Ad esempio con il Quirinale, con cui ha tenuto un canale aperto nella gestazione della riforma costituzionale della separazione delle carriere di pm e giudici, pronta al primo via libera nel Cdm del 3 giugno. Se questa volta Mantovano esce allo scoperto è perché a Palazzo Chigi si fa strada la convinzione che la misura è colma.

Giorgia Meloni viene messa al corrente dell’incontro con Mori. E condivide nel merito la premier lo sfogo del sottosegretario, l’irritazione per il “fine indagini mai” di una parte dei pm. Anche per lei, c’è una nota personale di fondo. Ha rivendicato più volte di aver iniziato a fare politica dopo le stragi mafiose dei primi anni ‘90, Capaci e via d’Amelio, la lotta alla mafia e gli arresti illustri dei boss, fra cui Totò Riina, grazie agli uomini di Mori. Per questo l’avviso di garanzia recapitato dalla procura di Firenze al generale ottuagenario spiazza anche la premier. Nel governo l’indagine su Mori è un tappo che salta. Basta e avanza per riaccendere uno scontro con le toghe che ormai va avanti da mesi, ora sotterraneo, ora invece sotto i pubblici riflettori. È una crociata che vede sempre in prima linea Forza Italia.

Anche in questo caso. Quando Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato, chiede al Guardasigilli Carlo Nordio di inviare subito ispettori a Firenze, si fa portavoce degli umori di buona parte della compagine azzurra. Galvanizzata, a tre settimane dal voto, dalla storica battaglia del fondatore Berlusconi contro le “toghe politicizzate” e decisa a mettere il cappello sulla riforma dei pm vicina al varo del Consiglio dei ministri. La vicenda Mori, si diceva, riaccende le tensioni fra governo e toghe già alle stelle per la riforma costituzionale che vede buona parte della magistratura associata in trincea, come ha chiarito, casomai ci fossero ancora dubbio, il congresso dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) a Palermo. L’innesco è servito. E anche la maggioranza si divide sul da farsi. Lega e Forza Italia lamentano una eccessiva prudenza di Fratelli d’Italia e della premier nella gestione del cronoprogramma della giustizia. Riforme troppo lente e troppo “morbide” per chi sperava fosse la volta buona per un colpo di spugna contro lo “strapotere” dei pm. Vale per la separazione delle carriere, destinata ad atterrare sul tavolo di Palazzo Chigi in una versione “soft”, come anticipato da questo giornale. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm) potrebbe perfino restare unico, così come il concorso per l’accesso alla professione. L’Alta Corte, il nuovo tribunale terzo che nelle intenzioni iniziali doveva fungere da organo di appello contro tutti i provvedimenti del Csm, si limiterà ai ricorsi per i provvedimenti disciplinari. Accortezze studiate dalla maggioranza e FdI per allentare lo scontro con i togati e però mal viste dall’ala oltranzista del governo. Irritata fra l’altro per le condizioni in cui versa un’altra importante riforma della giustizia.

L’IRRITAZIONE

Che fine ha fatto il Ddl Nordio? Fra poco compirà un anno: era il giugno del 2023 quando il governo ha dato il via libera al testo che promette di cancellare l’abuso di ufficio, con buona pace delle proteste dei magistrati. Poi, un lungo pellegrinaggio in Parlamento, da cui non è più uscito.

Un anno dopo non è entrato in vigore. Così restano scritte a matita le tante novità contenute in quel maxi-testo sulla giustizia italiana. Fra queste, una piccola grande rivoluzione: il divieto categorico per i pm di impugnare le sentenze di assoluzione. Un altro colpo, almeno nelle intenzioni della destra al governo, alla “persecuzione giudiziaria” di certi inquirenti. Il nuovo avviso di garanzia a Mori non rientra in questo caso, ma riaccende lo stesso dibattito in maggioranza. Sulla necessità di mettere un punto sulle indagini che non finiscono mai, e quando finiscono, per l’indagato, è già tardi.


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 22 Maggio 2024, 00:03
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