Viaggio a Sud dopo il Covid, le storie di chi prova a riprendersi la vita post pandemia

Viaggio a Sud dopo il Covid, le storie di chi prova a riprendersi la vita post pandemia

di Marco Mottolese

Vado a Sud. Dopo Roma e Milano mi immergo nelle bellezze mediterranee del nostro paese per annotare anche da qui i sentimenti “post-covid” della gente. Quando ho iniziato questa rubrica il virus era ancora alto, gli scenari distopici, la vita diversa da quella di prima. Oggi la normalità bussa alle porte e lo fa con una certa gentilezza e noi scendiamo di corsa le scale per aprirla quella porta prima che lei ci ripensi. Per essere certo di fare tesoro dell’attraversamento dei nuovi luoghi propendo per l’utilizzo di mezzi diversi: un treno, una nave, un’automobile in affitto, mi porteranno ancor più rapidamente al cuore del sentimento più genuino di chi vive quei luoghi. E’ Jack Kerouac che mi ha insegnato che l’essere “on the road” è metodo infallibile per abbracciare i posti e attraversarli come rabdomanti in cerca del segreto che si annida ovunque. E così, più luminoso e intenso che mai, eccolo il grande sud, dove la Storia si intreccia col clima e dove non dubito che l’epoca del virus strisciante abbia lasciato un segno diverso rispetto alle metropoli che qui ho già raccontato.

“Purtroppo il bar è chiuso, ci limitiamo al carrellino e lei non sa quanto vorremmo invece vedervi nuovamente nella carrozza ristorante, non solo perché a noi piace spostarci su e giù mettendoci al servizio di chi viaggia, ma anche perché ora lavoriamo meno e siamo costretti a stop forzati che disturbano il nostro equilibro e il nostro portafogli”.

Mi risponde così, mentre cerco una birra, un addetto al servizio ristoro nel Frecciarossa che da Roma, tutto sommato in poche ore, arriverà a Reggio Calabria. Superata Napoli e la Campania il treno decide di corteggiare le spiagge più a sud del Tirreno, quei luoghi dove, se socchiudi gli occhi, intravedi antenati immersi in una bellezza della quale ignoravano i contorni. E’ in quel punto che il treno si allinea al mare e tutto diventa visione da vecchia pellicola che gira a scatti convulsi che ipnotizzano, rilasciando a intermittenza un blu accecante a tratti oscurato dal verde degli arbusti che solo in alcuni punti separano la ferrovia dalla spiaggia. Così il finestrino diventa uno schermo sul quale scorre una proiezione dadaista. Il vagone è praticamente vuoto, ognuno sta accucciato nel suo posto; la tipica esuberanza da viaggio, rappresentata dal brandire un insopportabile telefono cellulare (e che portò le ferrovie a inventare i vagoni “silenziosi”) oggi è sparita; ci si limita ad essere contenti di potersi spostare e trionfa il silenzio come se persino parlare ad alta voce al telefono fosse pratica pericolosa e dunque si rimane fermi, discreti, perché solo così il treno acconsentirà a riportarci verso ciò che eravamo. Alla stazione di Lamezia Terme, però, il caos è quello di sempre; chi scende dal treno cerca chi è venuto a prenderlo, ci si muove scomposti, di fretta, qui -è evidente- lo scongelamento è in pieno corso. E’ arrivato il momento di salire su quattro ruote e iniziare l’ascolto del territorio.

“Abbiamo lavorato molto poco in questi mesi” mi fa la simpaticissima autista del van “ma da fermi anche pianificato un’attività migliore perché è chiaro che l’uomo lo vince sto virus e bisogna essere pronti ad andare meglio di prima”.

Contrariamente agli addetti del treno la mia “taxi driver” del Mediterraneo deve riorganizzare da sola la propria vita lavorativa e dunque ha rialzato la testa prima di altri in quanto dipende solo da lei se e quanto riuscirà a lavorare.

“E allora che mi dice, ce la stiamo facendo?”

più o meno le porgo la medesima domanda che giorni fa, a Milano, avevo fatto ad una tassista che poi mi aveva illuminato.

“Ma certo, il problema da queste parti non è certo il Covid”

e percepisco in queste parole un misto di rassegnazione, durezza e orgoglio come se tutti i proclami dei portavoce del virus, gli innumerevoli chiacchieroni che hanno messo le tende in televisione, qui non avessero avuto la medesima accoglienza riservata loro da chi vive nelle grandi città.

Mentre penso e parlo scorre davanti ai miei occhi - e a quelli della persona che viaggia al mio fianco - un altro pezzo di Calabria ma l’angolazione è diversa da quella del treno; mi rendo conto di quanto la presenza di una natura forte e inscalfibile abbia contribuito ad ammorbidire l’impatto negativo del virus rispetto ai grandi centri urbani. Quella asfissiante cappa cittadina che da marzo 2020 ci opprime qui è meno presente. Abituati da sempre, a queste latitudini, a fronteggiare difficoltà di ogni tipo ho l’impressione che qui la pandemia abbia ricevuto moderata confidenza, sfumata e ora quasi archiviata tra le innumerevoli ed endemiche montagne da scalare. Alla nostra destra, d’incanto, appare Stromboli, nell’inconfondibile profilo di vulcano ancorato nel mare; c’è poca gente per strada e anche per questa ragione tutto appare più nitido. Avevo scritto dell’imprevista estroflessione di Milano, di Roma e della sua ospitalità, con stile millenario, ai nuovi riti post-covid, ma ora che attraverso il sud mi sento di dire che forse il baluardo principale a difesa dal virus qui è stata la maestosa potenza della natura che incute rispetto nella gente e dunque lascia poco spazio ad altri ingombranti seppur invisibili nemici. Sto guidando un’auto che ci porta nelle braccia della fata Morgana, la regina dello Stretto. Con una rapidità sorprendente, grazie a tecnologie innestate peculiarmente in un paesaggio degradato, ci ritroviamo su un traghetto che a tempo di record ci sbarcherà in Sicilia. Mentre sono in mezzo al mare che divide le due regioni che chiudono lo stivale mi torna in mente una frase di Nanni Moretti:

“Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere” (Caro Diario, 1993) .

L’afferro per intero la frase solo ora che sono in questo tratto di mare in condivisione, l’enigmatico Stretto, che si offre come striscia di pace per unire due terre dal passato solo in parte comune. Nel trasbordo facciamo in tempo ad acquistare due camicie:

“abbiamo aperto uno shop sulla nave” mi fa la ridente commessa, “anzi un outlet , perché lo sconto accelera le decisioni e i 20 minuti di viaggio sono sufficienti a fare un acquisto come se rapidità e convenienza stringessero un patto” .

Sul traghetto il bar è aperto e mi chiedo come mai sui treni no. Misteri da Covid, mi dico. Il bar del traghetto, peraltro, è famoso per gli arancini e mentre ne gusto uno non posso non chiedere al barista

“ e allora come va? Come vive in questo periodo il lavoro da qui ?“

“A noi piace traghettare gente felice, è il nostro compito, ha visto come si chiama la linea? Caronte! Qui sulla nave stiamo attenti, certo, ma mi creda, l’aria dello stretto lo scaccia il Covid…non supera Scilla e Cariddi”

ridendo mi dice .

Quando arrivo alla meta finale, in una zona così a sud che, se non ci fosse il mare, confinerebbe con un altro continente, è pomeriggio inoltrato. Trovo tanta gente seduta al bar del paradiso barocco, vedo molti sorrisi, serenità. E’ l'ora clou dello struscio sul corso e i ragazzi passano con le mascherine abbassate sul mento ormai protesi del nostro volto che soprattutto i giovani faranno fatica ad abolire. Peraltro messa così è gesto utile solo a dire …” tranquilli, all’occorrenza la tiro su”. Le farei due domande a questi ragazzi ma poi mi rendo conto che sarebbe inutile, penso di aver capito come ha girato il virus da queste parti. Le campane, il sole radente del tramonto, la serenità di un sud sempre isolato eppur ambito, mi annunciano in qualche modo che qui si è già voltata pagina. E questa discesa al sud ha rigenerato anche me. Aveva ragione Kerouac quando scrisse: “La strada è vita.”


Ultimo aggiornamento: Sabato 5 Giugno 2021, 19:54
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