Valori condivisi/ Quell’amore per la Patria che portò al 25 aprile


di ​Paolo Pombeni
Molte cose si possono dire sulla ricorrenza del 25 aprile, festa di una liberazione che alcuni vorrebbero senza padri (allora è finita la guerra e basta), altri se ne vorrebbero appropriare per attribuire a sé soli i meriti della liberazione. Di fare una riflessione profonda su come e perché l’Italia arrivò a liberarsi da una fase della propria storia poco gloriosa, ma soprattutto che aveva portato il paese alla catastrofe, non è che ci sia una grande voglia.
Eppure quella “concordia nazionale” che tanto spesso viene giustamente invocata sarebbe lì a portata di mano se si riflettesse su come il paese si è lasciato alle spalle vent’anni di un regime politico che aveva preteso di rifare la storia del mondo (e per questo era finito nelle braccia della follia hitleriana) e che non c’era proprio riuscito. Anzi proprio vent’anni di pretesa egemonia “totalitaria” sul nostro sistema politico e sociale non erano riusciti a plasmare una nazione fascista come la sognavano i radicali del regime: perché gli uomini e le donne che hanno preso parte alle varie forme di resistenza, quelli che non hanno reagito il 25 luglio 1943 per difendere un sistema politico che la monarchia liquidava, erano in grande parte vissuti a quell’ombra ed avevano partecipato della diffusione di una cultura che si diceva retoricamente ne avrebbe dovuto fare degli “italiani nuovi”.
In realtà una larga componente di coloro che a vario titolo avevano preso parte alla “resistenza” usarono come motore per il loro schierarsi concetti e valori che il fascismo aveva continuato a predicare anche se aveva impresso su di essi il proprio marchio. Generazioni che nelle scuole avevano imparato la cultura risorgimentale non potevano accettare di finire sotto il tallone del “tedesco”. Uomini e donne che avevano appreso che la patria è un bene supremo non potevano accettare che la patria si riducesse alle fortune di un regime (per non dire alle fantasie dei suoi gerarchi). Persone che ancora avevano vissuto in contesti in cui il solidarismo, fosse quello cattolico, laico o socialista, era un concetto fondativo delle reti sociali non potevano arrendersi all’idea che la politica fosse “potere” e non “ricerca del bene comune”.
Non è detto che questi sentimenti si razionalizzassero in pensieri articolati in ogni singola persona che, a seconda delle circostanze, della collocazione, del coraggio personale, aveva scelto di discostarsi dal fascismo e dal suo regime, che non apparivano più come la veste legittima del contesto politico in cui vivere. Come sempre nella storia, c’erano le figure che avevano sistematizzato ed articolato questi sentimenti, ma se fosse bastato, visto che l’avevano fatto gli oppositori della prima ora, la dittatura mussoliniana non avrebbe retto per vent’anni, anche con punte notevoli di consenso e di successo. C’era voluta la prova della guerra (la guerra delle “nazioni unite”) per riportare alla luce i valori profondi che informavano di sé concetti come patria, risorgimento, solidarietà. Nella temperie di quel dramma le parole ritrovavano il loro significato ed animavano quelle scelte che non erano affatto “scelte di carta” come ironizzavano i totalitarismi riferendosi alle schede elettorali che secondo loro creavano i partiti. Erano davvero scelte di vita, fino ad arrivare al punto estremo che mette in gioco la vita stessa.
Se guardiamo sotto quest’ottica quanto avvenne fra il 1943 e il 1945 comprendiamo che le manipolazioni profonde della coscienza di un paese trovano ostacoli forti per avere successo. Ricordiamo che i resistenti definirono sé stessi “patrioti” e che su questa parola la repressione nazista e fascista fece molto sfottò, mentre ci fu tutta una corrente di pensiero che presentò la nostra guerra di liberazione come un secondo risorgimento. Un parroco del mantovano che i tedeschi condannarono a morte perché aveva aiutato dei militari italiani a sottrarsi ai bandi del fascismo chiese di essere fucilato sul cippo dei martiri di Belfiore: non lo accontentarono, ma l’episodio è molto significativo.
Certo quelli che cercano in ogni modo di offrire un quadro divisivo del fenomeno resistenziale insistono sul fatto che nelle formazioni comuniste era viva l’idea di fare il primo passo verso la rivoluzione proletaria. È così, ma è anche da ricordare che i comunisti vollero chiamare le loro formazioni “Brigate Garibaldi” e non brigate Lenin o qualcosa di simile: significa che anche in chi pensava ad un passo nella direzione di una rivoluzione più o meno sovietica era presente la coscienza che si doveva partire da un legame con la nostra storia nazionale.
In nome di questi ideali il nostro Paese ha potuto ricostituire una sua storia nazionale, anche resistendo a spinte secessioniste che per quanto minoritarie pure vi furono, difendere senza stupidi imperialismi le nostre frontiere, darsi una Carta costituzionale che, pur fondandosi sul valore del superamento della parentesi fascista, non restaurava antichi regimi, non costruiva meccanismi per spaccare la società sulla base di quanto era successo, ma ragionava di un futuro nuovo, davvero di “un altro mondo” che non era quello vagheggiato dai totalitarismi di vario colore.
Se la storia potesse essere maestra di vita, ci sarebbe oggi una grande occasione per tornare a riflettere su come ogni liberazione vada celebrata come impegno a costruire un futuro per il quale nella nostra stessa storia di lungo periodo troviamo radici che tutti possiamo condividere perché hanno nutrito la nostra coscienza di italiani.
Ultimo aggiornamento: Giovedì 25 Aprile 2024, 00:35
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