«La Roma non ha mai pianto e mai piangerà. Perché piange il debole, i forti non piangono mai» disse una volta Dino Viola, il “presidente scudetto”, perché lo ricucì sulle maglie giallorosse nel 1983, quarantuno anni dopo quello di guerra. Ma la sua Roma pianse, e quanto, quel 19 gennaio 1991, un giorno triste di trent’anni fa, quando Dino Viola morì, lasciando un’eredità di successo, quello scudetto, quattro volte la Coppa Italia (e una quinta in via di conquista: di lì a qualche mese l’avrebbe sollevata per lui Donna Flora, sua moglie, gran signora e presidentessa del “subito dopo”) e quella finale di Champions che stringe il cuore romanista per dove e come venne: all’Olimpico e ai rigori. La Roma era diventata grande, e pure “maggica”, con Dino Viola presidente, padre più che padrone com’era considerato dai giocatori che andavano in campo, citati alla rinfusa, Falcao e Pruzzo, Di Bartolomei e Bruno Conti, Tancredi e Nela, Vierchowod e Toninho Cerezo, Capitan Di Bartolomei e in panchina un Barone, Nils Liedholm, l’ironia e la competenza fatte persona. E quanti altri nomi si potrebbero fare per quell’Era Viola che durò tutti gli Anni Ottanta. Un altro va fatto: Ramon Turone. Un suo gol fu l’emblema di tutto, un gol che fu annullato (e ancora si discute se dovesse esserlo o no: no, era “bbono”). Fu il simbolo del Viola contro il Palazzo che caratterizzò la sua lunga stagione presidenziale.
Ultimo aggiornamento: Martedì 19 Gennaio 2021, 07:30
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