Eugenio Finardi pubblica Euphonia Suite: «Io, ribelle e libero, incuriosito dalla trap e deluso dalla politica» FOTO

Eugenio Finardi pubblica Euphonia Suite: «Io, ribelle e libero, incuriosito dalla trap e deluso dalla politica» FOTO

di Rita Vecchio

«Vede quante chitarre ho qui davanti? Sono l’oggetto del mio desiderio. Il mio harem. Ne ho 100. Molte le ho costruite io». Tra locandine e vinili, tra il pianoforte regalatogli dal padre e le chitarre, Eugenio Finardi si muove nella storia di 50 anni di carriera con l’onestà di sempre. «La musica deve essere vera e vissuta. Per quello i miei dischi nascono dopo il tour. La musica non è un prodotto». Ed Euphonia Suite, appena pubblicato, è l’album coerente con questo pensiero. Sono 15 brani riarrangiati con il pianoforte di Mirko Signorile e il sassofono di Raffaele Casarano, in attesa del live al teatro Lirico di Milano il 18 marzo, «dove sono contento di tornare dopo 30 anni esatti. La musica per me ha sempre uno scopo». 

 

E qual è quello di Euphonia? 

«Curativo, laicamente spirituale, di un anti-infiammatorio. È un viaggio che estrania e che vuole farti uscire di testa».

É rimasto ribelle? 

«Per forza. Prima di tutto con me stesso (ride, ndr). Ma pure il disco lo è. “Katia” e "Una notte in Italia” di Fossati sono i brani che lo hanno anticipato. Katia è una canzone poetica, di un 70enne (li ho compiuti lo scorso 16 luglio) che ricorda le emozioni di quando aveva 11 anni e che ancora oggi lo emozionano. Il videoclip è in stile manga (curato dalla moglie Patrizia dello Studio Convertino, ndr)». 

In Diesel canta la quotidianità di una “Italia che scotta”, della gente che “si dà da fare senza starsela a menare”. Era il 1977. C’è attualità in queste parole? 

«Dipende. In Italia, purtroppo, ci sono pochi giovani, e quelli che non se la menano sono già andati via. Viviamo in un Paese per vecchi e fatto di tradizioni (con cui io non tanto vado d’accordo)». 

Nel disco c’è Soweto. Quanta “vergogna” è presente ancora nella politica che “fa morire un sacco di gente”?

«Tanta. L’unico privilegio di invecchiare è la prospettiva storica che si ha. La guerra in Corea, quella degli afgani “che lottano una guerra già perduta/Perché sanno che la resa è la morte garantita”, o la guerra del Golfo in Mezzaluna. É un elenco di nefandezze. Con il senno del poi, si capisce che l’unico eroe della mia generazione che non ha tradito è stato Nelson Mandela. Ci vorrebbero persone con una visione e che abbiano onestà intellettuale. E a parte Papa Francesco, (indugia un po’ prima di continuare, ndr) non mi vengono in mente altri nomi».

E' credente? 

«No, per come intendono la divinità le religioni».

A proposito della guerra, che pensa della polemica accesa dal console ucraino sull’Ur-Boris in Scala?

«Ho visto quest’opera di Musorgskij diretta da Abbado nel 1979 in scena proprio al Piermarini. Che dire, avremmo dovuto smettere quindi di ascoltare Bach durante la seconda guerra mondiale o Wagner perché piaceva a Hitler? Il problema non è il titolo in cartellone alla Scala che, conoscendone i meccanismi, sarà stato deciso anni prima, ma la guerra che in un’Europa del XXI secolo è anti-storia». 

É disilluso dalla politica? 

«Sì. Dalla sinistra. Non rappresenta più gli ultimi. E’ tutto noioso». 

Noiosa pure la discussione presidente/presidentessa?

«Il sesso andrebbe eliminato dalla lingua. Oggi non si può più scrivere nemmeno un verso che scatta la polemica. Si perde di vista ciò che davvero conta, ovvero la lotta contro la violenza sulle donne o contro lo stalking. Il ruolo del maschio nella società contemporanea è messo in discussione continuamente. E il gender, dovrebbe essere un fatto assodato». 

Dolce Italia è stata scritta il giorno dell'anniversario della liberazione, come "canzone d'amore" verso il nostro paese con il mito dell’America. C’è ancora?

«Quelli erano i paninari, ma c’è sempre. L'anti americanismo che sta venendo fuori (come giusto che sia) è frutto di Trump che ha rovinato l’America».

Con Soweto e la Dolce Italia siamo nel 1987, quando lei andò via per il contrasto con le discografiche. Che era successo? 

«Volevano fare di me un artista di musica leggera. E io non la so fare. Potrei anche dirle che non la voglio fare (ride, ndr), ma sarei un disonesto. Io so fare solo la mia musica».

Com’è oggi la discografia? 

«I numeri si sono talmente ridotti che non saprei. Sono uscito dal business nel 2002, quando ho chiuso il contratto con Warner dopo 30 anni di carriera. Ho investito ciò che avevo ereditato dopo la morte di mio padre per finanziare i miei stessi progetti ed evitare qualsiasi interferenza nella fase creativa. Oggi non si dice che è un bel disco o che è un brutto disco. Si dice che è un disco che ha venduto un tot di copie o che ha un tot di visualizzazioni. II successo si ottiene praticamente attraverso l’auto-umiliazione». 

Con Ambara Boogie, per esempio, nell’ '85 lei fu innovativo. Che pensa della nuova musica? 

«Mi incuriosisce, anche perché irrita quelli della mia età (ride, ndr). Io la apprezzo, invece. Propaganda di Fabri Fibra, Musica Leggerissima di Colapesce Dimartino, e ancora Ghali e Mahmood (ammetto che non ricordavo che la sua Soldi avesse lo stesso titolo della mia).

Mi piace la trap, i groove hanno una bella intensità». 

Citando Vil Coyote, un suo progetto strampalato? 

«Ne avevo uno sul rebetiko greco, basato su quarti di tono e melismi. Ricordo che chiamai Franco Battiato che mi disse che forse era meglio non farlo perché (e ne imita la voce, ndr) magari non sarebbe stato capito». 

Sempre della stessa idea su “La Radio”? 

«Se ci fossero le radio libere, sì. La radio potrebbe essere un’arte, ma ormai gli spazi di libertà sono davvero ridotti».

A proposito di libertà, lei ha dichiarato che “le droghe da giovani non vanno bene” e che consiglia “dosi abbondanti e quotidiane di sex e rock ’n' roll". Però in Scimmia, sempre nel ’77, ha cantato la dipendenza con un brano molto forte. Cosa scatenò quella canzone?

«Lo racconta il testo ("Il primo buco l'ho fatto una sera/A casa di un amico...", ndr), dirompente e pieno di verità, insieme alla musica con basso, batteria e accordi del pianoforte per sostenere l’armonia. La forza stava nell’onestà di scrittura di noi musicisti liberi che cantavamo, liberi, una canzone vera. Quello era un periodo in cui l’eroina e le P38 arrivarono in modo devastante. La mia generazione fu falcidiata. Quello che c’è stato dopo, fu una dura lotta». 

Come ne uscì? 

«Solo una cosa ti tira fuori. Solo una cosa ti salva. E quella cosa è la dignità». 

Le ragazze di Osaka e Amore diverso sono dell’album Dal Blu pubblicato dopo la nascita di sua figlia Elettra, con la sindrome di Down. Ma è vero che il disco creò la separazione dai fan storici? 

«Sì, perché venivo dal rock e la nascita di mia figlia mi aveva cambiato. Come altri colleghi per i loro figli, penso a Baglioni, Fedez, Jovanotti, ho voluto scrivere per lei delle canzoni. Ho dichiarato di essermi sentito diverso, anche rispetto a me stesso, perché nemmeno nel fare un disco ero riuscito a essere normale (fa una pausa, ndr). Io, con una madre americana (era una soprano, ndr) e un padre italiano (era un tecnico del suono, ndr), ho dentro due culture. Mi manca l’appartenenza a un popolo. Mi sento come un ebreo ma senza comunità. Un po’ come Rossana Casale, Demetrio Stratos o Alberto Camerini. Non parlo nemmeno il dialetto milanese, e questo mi spiace un po’ (sorride, ndr

Ci rimase male per i fan?

«Non avevo comunicato di mia figlia. Capisco chi si era sentito tradito nel vedermi passare dal rock all’album introspettivo. Però acquistai nuovi fan che mi hanno vissuto come una scoperta invece che come un tradimento. C’è da dire, con sincerità, che il primo a tradire me stesso sono stato io. Rock, blues, classica contemporanea, tre Sanremo (per sbaglio)». 

Quindi è sempre dell’idea che il Festival è “una gara stupida da Italietta ignorante”? 

«No. La mia frase era stata detta tempo fa e decontestualizzata. Questo Sanremo mi piace, funziona, rappresenta la musica italiana. Veda i Mäneskin»

Quindi ci tornerebbe? 

«Sono troppo vecchio. Se mi volessero dare un premio speciale per la carriera, mi piacerebbe. Ma non credo che me lo daranno».

Una targa Tenco l'ha vinta. 

«Eh ma come interprete (nel 2008, con Il cantante al microfono, ndr), mai come autore».

Quest’anno però sono 50 anni di carriera. 

«Non sono così rilevante nel mercato musicale italiano». 

E’ il prezzo che paga un artista indipendente? 

«Più che indipendente, un artista libero». 

Avrebbe fatto da consigliere al ministero della cultura se glielo avessero chiesto? 

«Assolutamente sì. I musicisti pop non sono tutelati. Non riusciamo ad accumulare abbastanza pensione e questo è il risultato del fatto che la politica non ha capito nulla». 

Morgan dice che a scuola si dovrebbe studiare la canzone italiana. 

«E ha ragione. L’Italia ha un grosso problema culturale. Bisognerebbe insegnare ad ascoltare la musica prima che insegnare a suonare il flautino». 

Voglio apre la scaletta del disco. Lei è riuscito a realizzare nella vita tutto “quello che aveva desiderato” come scrive nei versi? 

«No, ma molto sì. Sono l’unico artista pop che è arrivato al Teatro alla Scala (mostra orgoglioso le due locandine con il suo nome diretto da Carlo Boccadoro, ndr). Ma vado fiero anche del disco e dei tre anni del tour di Anima blues. Subisco, però, un grande difetto professionale: non sono riuscito a produrre abbastanza denaro per potermi permettere di realizzare impegnativi progetti musicali». 

Si sente un “extraterrestre”? 

«Non si sfugge mai a se stessi. Sono un ribelle che fa quello che sente, quello che vuole e quello che può. Se per extraterrestre intende libero, allora sì. Mi sento un artista dalle tante anime. Rock, jazz, classica contemporanea. Ma più di tutti, un artista dall’anima blues».


Ultimo aggiornamento: Martedì 22 Novembre 2022, 15:10
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