Renzo Arbore: “Dario Fo e Bob Dylan, due fuoriclasse visti da vicino”
di Mario Fabbroni
Hai conosciuto Bob Dylan? «In un certo senso. Io e Gianni Boncompagni andammo a scovarlo mentre si aggirava in un furgone per la strade di Roma, nel 1964».
Cosa ci faceva? «Incredibile a dirsi, cercava il Folk Studio. Era vestito da barbone, anche se negli States aveva già raggiunto una certa popolarità: in Italia invece era del tutto sconosciuto».
Come andò il primo contatto con il Menestrello? «Passammo in radio, nel prpgramma “Bandiera gialla” la canzone “The times they are a changin’”: aveva una voce a dir poco anomala».
Giusto dare il Nobel per la Letteratura a Bob Dylan? «La vena poetica c’è, ora viene tradotto a cantato perfino da Francesco De Gregori. L’ultima volta che l’ho visto era al Pistoia Festival Blues, stava sempre chiuso in roulotte e usciva solo con la chitarra».
Quale aspetto inedito ricordi invece a proposito di Dario Fo? «Quello di rivoluzionario del “varietà” italiano, con il suo umorismo surreale. Lo vidi a Foggia, ai tempi in cui non avevamo neppure la televisione. Mio padre disse che avevamo buttato i soldi per quello spettacolo senza ballerine e canzonette».
Invece apprezzasti la novità? «Pochi sanno che Dario Fo, con Franco Parenti e Giustino Durano, era autore de “Il dito nell’occhio” e “Sani da legare”. Scenografia minima e battute dissacranti, era l’avanguardia teatrale. A noi giovani piaceva già la diversità di Renato Rascel, quella fu una folgorazione».
A Milano nacque un forte movimento intellettuale... «Ho un filmato di Dario Fo ospite alla trasmissione televisiva “Doc”, nell’87: lo costrinsi a cantare “Ho visto un re” insieme a Enzo Jannacci. Con Gaber, Beppe Viola e altri, costituì un cenacolo unico».
Cosa ti piaceva di Fo? «Era legato ai giovani. Il suo pubblico erano i ragazzi seduti per terra. Così non si muore mai».
Ultimo aggiornamento: Venerdì 14 Ottobre 2016, 08:39