Farneti, direttore di Vogue Italia: «Dopo la pandemia abiti sobri e funzionali»
di Anna Franco
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Ovvero: i tempi sono diversi. Com'è nata la copertina di aprile?
«Ci siamo chiesti cosa ci si aspettasse da Vogue, se fughe verso immaginari meravigliosi o se potesse esserci un'altra strada. L'abbiamo rifatto ex novo, in due settimane, senza glamourizzare mai la malattia. Abbiamo dato vita al primo servizio fotografico a domicilio, chiedendo ai protagonisti di pensare a immagini oneste del loro stare a casa e con enormi sforzi di tempistiche. Infine il bianco, senza cliché e pieno di significati. Richiama le divise dei medici ed è un attimo di silenzio prima di scrivere una nuova pagina. Abbiamo pensato alle copertine del White Album dei Beatles e de Il Giovane Holden di Salinger e ci siamo sentiti in ottima compagnia».
Una cover così, però, vuol dire bruciare la copertura dei marchi che l'avrebbero occupata?
«Certo, le copertine rispondono a una calendarizzazione in tal senso. Però abbiamo ritenuto più importante fare il nostro lavoro».
Come spera possa essere riempita la pagina bianca?
«La moda è il secondo settore manifatturiero in Italia. Qualcosa di più di un bel vestito o degli eccentrici. Gli eccessi e gli scemi sono ovunque, ma qui c'è anche una filiera e il governo deve capire che non è irrilevante la data della ripartenza. La moda è stagionale e non ha, perciò, recuperi».
Distanziamento, difficoltà di spostamenti... come saranno i prossimi servizi fotografici?
«Per mesi dovremo lavorare di creatività, facendo network con le altre edizioni di Vogue e spedendo abiti da far fotografare in loco. Ma dobbiamo darci da fare, perché a maggio avremo un mese e mezzo per sostenere le vendite dell'estivo e le sorti di un'industria in grande difficoltà».
E le sfilate?
«Sarebbe facile dire che non servono, ma non è così. Hanno un effetto moltiplicatore. Probabilmente a settembre ci sarà più spazio per il digitale. Poi, tornati alla normalità, ci sarà chi si affiderà al classico e chi, invece, avrà sperimentato nuove strade».
Torneremo a vestirci o finiremo per coprirci?
«Pensare che oltre alla spesa potremmo andare in un negozio per regalarci un vestito o una scarpa sarà il segnale che si può ripartire. Una liberazione, un piccolo spiraglio di luce. È importante, anche adesso, darsi delle regole e non cadere nell'abbrutimento».
Che estetica ci aspetta?
«La storia raramente sbaglia. Al termine della crisi del 1929 si scelsero abiti bianchi e pratici dopo il tripudio di paillettes degli anni Venti. Credo succederà lo stesso e saranno privilegiati capi che esprimano rispetto e funzionalità».
Perderemo gli indipendenti?
«È un grande rischio, in momenti simili si tende ad andare sul sicuro e su marchi noti, che hanno comunque più risorse. Media e retailer devono allearsi per aiutare i piccoli».
La moda ha davvero esagerato in passato tra show e proposte?
«La sostenibilità diventerà indifferibile. La corsa alla spettacolarizzazione delle pre-collezioni in giro per il mondo avrà una frenata, ma per le settimane della moda lo show è solo il momento più visibile di tutto un indotto che vivrà a lungo in emergenza».
Cambierà anche la comunicazione?
«Il settore ha dato prova di grande generosità in questo frangente. Dopo il momento di silenzio, ogni azienda dovrebbe riprendere a comunicare, a suo modo. Bisognerà capire quale sarà il comportamento dei consumatori sul lungo termine».
Una foto del numero di aprile e una dell'archivio che rappresentino l'attualità.
«Del primo quella dell'allattamento di Talia Chetrit. Del passato sceglierei uno scatto di Peter Lindbergh, perché rendeva giustizia alla bellezza naturale. Quella che viviamo adesso».
Ha pensato a una cover per il dopo?
«Non ancora, ma sarebbe bello che ci fosse un progetto internazionale per festeggiare. Qualcosa che coordinasse tutti i Vogue del mondo».
Ultimo aggiornamento: Venerdì 24 Aprile 2020, 18:38
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