Un altro San Valentino al tempo della pandemia: ma i nostri ragazzi hanno ancora voglia e forza per amare?

Un altro San Valentino al tempo della pandemia: ma i nostri ragazzi hanno ancora voglia e forza per amare?

di Marco Mottolese

Le strade di Roma sono stranamente sgombre, e lo sono sia di giorno che di sera. Mi dicono che anche nelle altri grandi città italiane avviene la stessa cosa e collegare questa irreale calma con ciò che stiamo vivendo è un attimo. Però, soffermandomi meglio, non penso che quanto accada sia dovuto solo all’alto numero di contagi e quarantene in corso; no, per me - complice l’inverno - questi deserti stradali - dove prima si faceva fatica a districarsi - sono solo in parte fotografia del lascito pandemico. Se di giorno il minor traffico è ricollegabile allo svuotamento degli uffici, la sera - e la notte - il panorama risente della mancanza dei giovani, da sempre i protagonisti del buio, ragazzi che stanno pagando più degli altri – in una sorta di collegamento diametrale con gli anziani- lo tsunami che si è abbattuto su di noi.

“Marco, arriva San Valentino, vuoi provare a scrivere della situazione dei ragazzi in questo freddo febbraio? mi dice il direttore percependo in me una reverenza verso il “Covid Telling” che, dopo un anno, mi ha proiettato in un’osservazione costante, ma che ora rallenta, perché la vorrei sempre accompagnata da un briciolo di speranza e, se parliamo di giovani, ancora di più. Ma, in questo caso non è semplice essere ottimisti … 

 “Ci provo Davide, ahimè non li vedo benissimo di questi tempi”.

Prima “untori”, poi bersagli diretti delle varianti meno dure, i giovani – già in difficoltà nel nostro paese prima della pandemia – oggi hanno davanti a loro un percorso davvero complesso. La scuola ha rallentato i programmi, la dad è stata solo palliativo, il corpo insegnante provato e in confusione;  le famiglie, più in crisi che mai, affaticate da convivenze forzate con assembramenti di genitori, nonni, figli, che impediscono a quest’ultimi di costruire serenamente la propria autonomia, il fondamentale approdo del sé adulto. E’ davvero difficile capire cosa lascia la pandemia in eredità alla gioventù che l’ha subita nel transito più bello della propria vita anche se il famoso incipit di Paul Nizan, del suoi libro più famoso, Aden Arabia, recava un monito incorporato: “Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita.”  Già, non è scritto da nessuna parte che essere ventenni sia meraviglioso, soprattutto se si vive in un’epoca in cui l’umanità è distratta da un problema globale e si vive in un paese che sempre più spesso è considerato “non per giovani”.  

Appare un problema, questo dei giovani, se non insolubile, sicuramente all’ordine del giorno; non possiamo affidarci a quei pochi ragazzi che hanno la fortuna di essere aiutati o a quelli che brillano di intelligenze uniche che emergerebbero comunque ed in qualsiasi periodo. Così come si accudiscono i neonati e poi via via li si assiste fino a che non sono adolescenti, in tal maniera servirebbe una task force, non necessariamente parentale, per dare una mano, sotto forma di consigli e di ascolto, ai nostri ventenni che così possano, di diritto, diventare grandi, ed europei. Si, perché non in tutta Europa la gioventù è in difficoltà come nel nostro paese. Abitudini ed educazioni diverse fan sì che in altri paesi il distacco dalle famiglie sia facilitato e storicizzato: maggior numero di posti di lavoro riservati a chi inizia, scuole che formano in maniera più verticale, ad esempio.

In Italia serve davvero una marcia in più per farcela, una forza d’animo speciale, una “copertura” non equa (ahimé) o un’idea da non abbandonare per nessuna ragione, per poter emergere entrando di diritto nel mondo degli adulti con la carica e la spregiudicatezza della giovane età.

Ma queste strade deserte purtroppo non significano ragazzi in casa a studiare e leggere; queste strade vuote significano anche discoteche chiuse e locali serali disabitati per paura o noia, luoghi, cioè, dove ci si incontrava, parlava, “battezzavano” amicizie. E allora, visto che “fuori non accade nulla”, i ragazzi si chiudono nel loro guscio, magari selezionando due amici fidati e disperdendo uniti il senso del futuro, quella spinta che permette non solo di diventare grandi, ma di divenire utili in fretta alla società, lavorando, apportando idee, spargendo nel mondo la cultura del “qui e ora”. Contraltare di tutto questo le reazioni scomposte, e spesso pericolose, di alcuni di essi, ispirate dalla noia, dall’ignoranza e dalla mancanza di dialogo con i più grandi, fino a veder nascere un solco che spacca due territori e che la pandemia ha arato ancor meglio, seminando paura e accidia, la peggior nemica di chi deve crescere.  Mi chiedo, può bastar loro abbeverarsi alla vita degli altri – o far conoscere la propria- attraverso la reale finzione (o finzione reale) che rappresentano i social network che ormai profilano l’esistenza di una persona più ancora che la realtà vissuta? Quel poco che si fa va scaricato subito in rete ma sembrano rantoli, più che fotografie felici.

Non voglio dunque credere che sia la pandemia ad avere innescato il problema -certamente lo ha acuito - ma l’insieme delle domande senza risposta che attagliano la gioventù ora si leggono meglio, come se il virus avesse anche effetti collaterali che acuiscono la vista.

Non è semplice proporre ricette, non è giusto edulcorare le situazioni (arriverà San Valentino, certo, ma ormai è ricorrenza che ai giovani non interessa, se non hanno tempo per rialzarsi figuriamoci se ne hanno per amare) piuttosto ripensare la scuola, l’università, il tempo libero; quando la vita rallenta e quasi si ferma - come accaduto in questi due anni - ci piomba in mano una lente di ingrandimento che mette a fuoco i difetti della società. Nel caso della generazione Z la storia ha voluto  come contrappasso che, nel nascere all’inizio di un secolo che l’uomo attendeva come il secolo del “futuro” - se non della fantascienza che diventa quotidiano - i nuovi nati entrassero piuttosto di diritto nel passato, come in un ubriaco ribaltamento di prospettive accompagnati e depositati in braccio al virus, che ha tarpato loro le ali trasformandoli da potenziali attori a spettatori inerti di ciò che gli adulti fanno non certo nel loro interesse.

Non vorrei che questa generazione indebolita dovesse attendere l’inaugurazione del mondo parallelo - quell’ormai quasi onnipresente metaverso - che, per assestarsi definitivamente, ha solo bisogno di sfruttare i desideri dei giovanissimi. A quel punto l’eccezionale luogo di “distrazione di massa” in fase di costruzione alle nostre spalle, farà confluire in fila indiana i giovani e annoiati consumatori aprendogli di diritto le porte di un luogo dove, semplicemente, prolungare l’attesa.  


Ultimo aggiornamento: Giovedì 3 Febbraio 2022, 06:32
© RIPRODUZIONE RISERVATA