(Non) ti conosco, mascherina

(Non) ti conosco, mascherina

di Marco Mottolese

Tra le cose cattive e quelle, più utili, che ci hanno insegnato qualcosa nell’era del virus, una in particolare mi fa riflettere. Mi riferisco ad una “nuova” capacità che stiamo tutti sviluppando, quella di “immaginare un volto”.

Prima della pandemia, nell’inesistenza della mascherina, l’attitudine a ricostruire una faccia non solo non serviva ma, a nessuno, sarebbe venuto in mente che un giorno sarebbe diventato esercizio quotidiano. Ricordo che, alle feste di carnevale, e in tempi più recenti ad Halloween, in un’affollata serata poteva capitare di dover indovinare chi si celasse dietro una maschera ma, dover intuire quotidianamente il volto degli sconosciuti solo immaginandolo - e con pochi connotati a disposizione – davvero, prima, sarebbe sembrata fantascienza.

Eppure ora è così e sono certo che, come accade a me, allo scivolare di una mascherina – ad esempio sostando al bancone di un bar- ci rendiamo conto più che mai di quanto un volto sia unico e imprevedibile, una volta annessi - agli occhi e alla fronte - anche il naso, la bocca, il mento, lo sguardo… Per me è diventato quasi un passatempo , considerando l’abitudine forzata - nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto, negli uffici – di indovinare l’altro, in un excursus mentale che ormai facciamo tutti di default. Così immagino che, nelle nostre teste, in questo periodo che si allunga all’infinito, questa nuova e un tempo impensabile capacità si affacci perché è fondamentale, per un essere, collocarsi nell’ambiente che lo circonda – ché il paesaggio è sempre un mix di architettura e di persone - e, de facto, è fondamentale la lettura dei volti altrui perché solo così la parte animale della nostra mente si pacifica familiarizzando con ciò che ci circonda e con chi lo popola.

Inoltre - e questo accade perché ancora troppo breve il tempo delle “mascherine” obbligatorie - riscontriamo, giorno dopo giorno, che un viso che aveva attirato la nostra attenzione ( per quella porzione che la mascherina lascia libera) mai esso corrisponde, al suo svelarsi, all’idea che la nostra mente aveva induttivamente ricostruito ; la giungla urbana , prima del virus, sembrava non avere più segreti per noi e ora che la mascherina cela buona parte dell’identità morfologica degli sconosciuti mi rendo conto che stiamo sviluppando, da una necessità e da un impedimento, una nuova virtù.

La strada sarà lunga – e l’utilizzo post pandemico tutto da verificare - ma abbiamo compreso che non basta il taglio degli occhi o, piuttosto, il colore dei capelli, a ricostruire un identikit, perché al naso, alla bocca e, soprattutto alla mimica complessiva di un viso, è affidata la parte preponderante della nostra identità in quanto è in quell’atteggiamento prototipico della faccia che noi sveliamo agli altri chi siamo. Peraltro, nel corso della storia dell’umanità, la necessità di modellare con volontà e automatismo l’espressione del viso - che sorge solo per comunicare agli altri il proprio sentimento-  ha sempre avuto un fine comunicativo e ora che le mascherine impediscono di leggere il volto di chi ti sta difronte, siamo come bambini che devono imparare a usare il cucchiaio per la pappa o adulti che cercano di risolvere un puzzle complesso.

Sono certo che sia capitato a molti di essere profondamente sorpresi quando, allo svelarsi dell’integrità di un viso del quale si aveva solo un abbozzo, la persona appare molto distante dall’idea che ci si era fatti e, quanto più diversa sarà tanto più evidente risulterà che siamo ancora all’abc di questo auto-insegnamento di massa che, se dovesse proseguire in quest’era solo apparentemente post pandemica, ci dirà come convivere con i volti celati di chi è intorno a noi.


Ultimo aggiornamento: Lunedì 1 Novembre 2021, 17:51