Un vestito viola e blu che una volta luccicava di paillettes. Della vita di quella giovane trentenne, spogliata, decapitata e chiusa in un borsone da calcio nero e poi gettato nel Po, non restano che i brandelli di un abito che spuntavano dall'angolo strappato del valigione di plastica e tessuto sintetico ritrovato da un operaio dell'Aipo sulla sponda melmosa. Dalle acque del Grande Fiume emerge il macabro enigma: chi è la donna brutalmente assassinata, il cui corpo è riemerso solo grazie a quest'eccezionale annata di secca? Il borsone è rimasto incastrato nelle grosse pietre poste dopo l'alluvione del 1951, quando il Po, da millenni fonte di vita della fertile pianura che porta il suo nome, diventò dispensatore di morte. Quelle pietre sono una sorta di dighe subacquee, che servono a rallentare la corrente così da abbassare la pressione sull'ansa di Malcantone, a Occhiobello, dove avvenne la rotta del Polesine 70 anni fa. Se la siccità non avesse abbassato il livello dell'acqua, forse non sarebbe mai stato ritrovato quel corpo, preservato dalla voracità dei pesci di fiume grazie proprio alla valigia che lo conteneva. A memoria d'uomo non è mai stato rinvenuto nel Po il corpo di una vittima di omicidio così efferato.
Il cadavere nel Po è di una giovane donna: non è Isabella né Samira
Macabri i dettagli emersi dall'autopsia, eseguita martedì sera: al cadavere manca la testa ed è mutilato anche in altre parti. Nel saccone, il corpo era stato infilato in posizione fetale. Al momento non risulta che sui lembi di pelle della vittima siano stati ritrovati segni particolari o tatuaggi che possano aiutare nel riconoscimento. Il medico legale è riuscito a stabilire che si trattava del cadavere di una donna solamente dalla conformazione della cassa toracica.
Ultimo aggiornamento: Giovedì 7 Aprile 2022, 20:42
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