Lele Usai, lo chef stellato: «Sempre in movimento per aprire la mia mente»

Lele Usai, lo chef stellato: «Sempre in movimento per aprire la mia mente»

di Rita Vecchio
In continuo viaggio. È così Daniele Usai, detto Lele, una stella Michelin a Fiumicino con Il Tino.

Sempre con la valigia pronta per partire?
«Diciamo che sono curioso, uno che osserva gli altri e che ama visitare i luoghi. Mi sono sempre piaciuti i paesi con una cultura profonda del cibo, come Francia e Oriente. Sono una scoperta nuova ogni volta, come me che vado in cerca del passo successivo. Stando fermi si cresce molto lentamente. Bisogna riuscire ad aprire la mente».

Quindi qual è il suo prossimo passo?
«Marsiglia. Alla corte di Gérald Passédat, tre stelle Michelin di Le Petite Nice, ristorante che da poco ha festeggiato i cento anni dall'apertura. Lui è il mio punto di arrivo».

Chi ha chiamato chi?
«Gli ho mandato una mail. Gli ho spiegato francamente che volevo fare uno stage da lui e mi ha aperto le porte anche se non ci conosciamo. Realizzo un sogno».

Sembra insolito pensare che uno chef stellato vada a fare uno stage da un altro chef. No?
«E invece dovrebbe essere la prassi. Stare fermi sulla propria concezione fossilizza. Abbiamo in comune la materia prima: il pesce».

Cosa si aspetta?
«Le tecniche sono interessanti, ma relative perché oramai a disposizione di tutti facilmente. Vorrei leggere la sua anima e capire cosa c'è dietro un piatto di un grande maestro».
 
 


Cosa pensa degli chef in tv?
«Da una parte fa bene. Dall'altra, crea false aspettative nei ragazzi che già da quando cominciano credono di essere dei vip. Ho iniziato facendo il cameriere nei ristoranti di Ostia, poi ho lavorato a Londra e poi da chef che mi hanno insegnato molto. Tutto arriva per step. Non guida la visibilità e nemmeno l'egocentrismo di chi cucina».

Ma è vero che qualche suo piatto è dedicato alla brigata?
«Sì. Quando c'è un piatto che convince, anche se non è fatto da me, lo metto in carta e cito il nome di chi dei miei lo ha fatto. É indispensabile avere rispetto della squadra».

Tra i suoi maestri, anche Gualtiero Marchesi.
«Sì, che ho conosciuto quando ero all'Albereta. Non posso dire di essere un suo allievo, ma da lui ho imparato che per fare questo lavoro ci vuole amore. Mi ricordo che - settantenne - la mattina arrivava e apriva tutti i frigoriferi. Assaggiava. Lui fino alla fine era operativo e presente».

Anche lei lo è?
«Sì. Pensi che vado io stesso all'asta di Fiumicino tre volte a settimana per scegliere il pesce».

La carta di identità della sua cucina?
«Di territorio, stagionale, creativa e leggermente contaminata».

Una cucina dinamica, insomma.
«Una cucina che scorre. Solo così si migliora. È come una storia d'amore. Appena finisce il fuoco della passione, smetterò di fare il cuoco».

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Ultimo aggiornamento: Venerdì 15 Febbraio 2019, 07:41
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