Social tossici/ Quella droga a costo zero che ci rende dipendenti


di Luca Ricolfi
Di dipendenze si parla da sempre, anche se non sempre – e non su tutto – il discorso contro le dipendenze viene condotto con la medesima forza e la medesima convinzione. Alla fine degli anni ’50 c’era ancora, fra gli statistici, chi negava che il fumo fosse cancerogeno, e quindi la pressione contro il fumo era minima (poi venne il ministro Sirchia, e il divieto di fumare nei locali pubblici). Di droghe, leggere e pesanti, si parla con preoccupazione almeno dagli anni ’70, a dispetto delle rassicurazioni e dei distinguo dei movimenti anti-proibizionisti. Più recenti, invece, sono gli allarmi su vino e alcol, che solo negli ultimi anni sono entrati nel mirino della legislazione comunitaria, con grande disappunto dei produttori italiani e francesi. Altalenante, infine, è l’attenzione verso il gioco d’azzardo e le ludopatie, che tornano alla ribalta ogniqualvolta qualcuno si toglie la vita, o quando scoppia l’ennesimo “scandalo delle scommesse”. Così come intermittente, e perlopiù scandito dai casi di cronaca, è il discorso pubblico sulle dipendenze da cibo (binge eating e bulimia nervosa).
Fumo, droga, alcol, gioco d’azzardo, problemi con il cibo: su questi temi esistono innumerevoli associazioni, gruppi di volontari, apparati pubblici, istituzioni private che se ne occupano sistematicamente, facendo prevenzione, assistendo, curando, spesso con ammirevole dedizione. 
Il nemico comune contro cui combattono è lo spettro della dipendenza, ovvero il rischio che determinati comportamenti, accumulandosi e intensificandosi nel tempo, finiscano per intrappolare le persone che li praticano, rendendole incapaci di rompere il circolo vizioso della dipendenza. Non ci sono abbastanza statistiche per dire con precisione quante sono, oggi in Italia, le persone che hanno perso il controllo delle loro vite in quanto vittime di una o più forme di dipendenza, ma si può senz’altro affermare che sono diversi milioni. 
C’è, però, in questo quadro generale, un elemento che non torna. Siamo attentissimi, e giustamente preoccupati, di determinate dipendenze di giovani e adulti, perché siamo consapevoli degli enormi danni che possono produrre: decessi per cirrosi, overdose, cancro ai polmoni; incidenti mortali per guida in stato di ubriachezza o sotto effetto di stupefacenti; stupri e violenze condotte in stati alterati; esistenze devastate dai disturbi alimentari; rovina economica e suicidi in seguito a perdite al gioco. E tuttavia ci scordiamo quasi sempre, quando parliamo di dipendenze, di menzionare la più clamorosa, estensiva e socialmente impattante delle dipendenze: la dipendenza dai social.
Non so se ce ne rendiamo conto fino in fondo, ma non esiste – nel mondo delle dipendenze – alcuna pratica che, per estensione e per impatto, possa competere con quella che quotidianamente prende forma sui social. Cionondimeno, noi la ignoriamo. Educhiamo i nostri figli come se non conoscessimo i disastrosi effetti che la dipendenza dai social esercita sulle loro (e nostre) menti, sulla loro (e nostra) vita sociale, sulla loro (e nostra) autostima. Eppure questi effetti sono stati studiati, e spesso si possono anche osservare a occhio nudo: deterioramento delle capacità cognitive (concentrazione, memoria, senso critico), ansia, depressione, insonnia, paura di essere esclusi, isolamento, insicurezza, frustrazione, senso di inadeguatezza nel confronto con gli altri. Per non parlare dell’enorme frazione di tempo sottratta ad altre attività, come lo studio, lo sport, la socializzazione (quella vera, face to face). E lascio da parte i temi scottanti della pornografia, dell’adescamento on line, del sexting (trasmettere immagini sessualmente esplicite), tutte pratiche per le quali l’età di esordio si sta abbassando in modo drammatico.
Di qui una semplice domanda: perché tanta sollecitudine su ogni tipo di dipendenza ad eccezione di una soltanto? 
Mi vengono in mente due sole risposte. La prima è che remare contro i social significherebbe togliere ossigeno all’enorme business della pubblicità, che sui social ha trovato un meraviglioso canale di espansione e di manipolazione dei bisogni. La seconda è che, a differenza di tutte le altre dipendenze, quella dai social non riguarda una minoranza ma – verosimilmente – la maggioranza della popolazione. Il meccanismo che instaura la dipendenza, infatti, non ha bisogno di condizioni speciali per attivarsi, perché la gratificazione che i social promettono è gratuita, immediata, sempre accessibile, e dunque rinnovabile in qualsiasi momento. E ci coinvolge tutti: la madre che non distoglie il figlioletto dallo smartphone è essa stessa, in quello stesso momento, impegnata – sul proprio smartphone – a seguire le storie di qualche influencer, a mandare una fotografia agli amici, a chattare con le madri dei compagni di scuola di suo figlio. Il tutto a costo zero: senza bisogno di uscire di casa per approvvigionarsi, senza bisogno di pagare, senza bisogno di aspettare. 
È la droga perfetta, democratica e remunerativa. Democratica, perché – sotto forma di dopamina – la produce il nostro stesso cervello. Remunerativa, perché – ai giganti della rete – rende di più del narcotraffico.
Ultimo aggiornamento: Venerdì 19 Gennaio 2024, 00:16
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