Nessuno scontro, nessuna retata. Un paio di arresti che non hanno turbato lo svolgimento della cerimonia funebre. Le decine e decine di poliziotti, alcuni a cavallo, discretamente disposti in una sorta di velenoso abbraccio attorno e poi alle calcagna della folla che si muoveva come un serpente lungo la strada, per assieparsi contro le recinzioni di metallo innalzate sul perimetro della Chiesa dell’Icona della Madre di Dio, sud di Mosca. Neve e ghiaccio in un tranquillo distretto meridionale residenziale della capitale russa. Gli occhi di Putin a distanza.
IL PIANO
Lo zar ha scelto di non usare il pugno di ferro contro i partecipanti a un funerale, come è nella tradizione russa, com’è stato per altre memorabili esequie di figure del dissenso dai tempi di Tolstoi (1910) a Pasternak (1960), Marchenko (1986), Sacharov (1989), Nemtsov (2015), infine allo stesso Navalny. I 128 arresti in diciannove città sono praticamente invisibili nella dispersione dell’immensità della Federazione russa. Ma, certo, alla polizia segreta non sono sfuggiti i volti e le parole di ieri, e a tratti sembrava di cogliere, nei video, l’angoscia di chi aveva sfidato il regime pur di esserci. Fotografie e riprese della manifestazione sono già al vaglio dei servizi segreti politici. Il massimo della trasgressione, a parte la presenza che di per sé era un atto di coraggio per chi ha assistito, è stato qualche urlo “Russia libera” e il nome a tratti scandito di Navalny. Niente più.
LA TATTICA
La strategia di Putin, come quella dei predecessori sovietici e post-sovietici, è stata il contenimento. La riduzione del danno. Tra pochi giorni, tra 15 e 17 marzo, i russi andranno a votare per il presidente e Putin sarà certamente rieletto al quinto mandato che durerà altri 6 anni. E sarà un plebiscito. Ma non è difficile immaginare perché le autorità siberiane e quelle moscovite, certo su ordine e sotto il controllo del Cremlino, abbiano in ogni modo cercato di impedire, almeno ritardare, la consegna del corpo di Navalny alla famiglia, tanto da ricattare la madre Ljudmila perché in cambio della salma del figlio non celebrasse un funerale pubblico. Il britannico “Guardian” ha rievocato la vicenda dell’ultimo prigioniero politico morto dietro le sbarre prima di Navalny, Anatoly Marchenko nel 1986, al termine di uno sciopero della fame di 117 giorni per ottenere la liberazione di tutti i detenuti dissidenti.
IL PRECEDENTE
Anche allora, la madre dovette lottare per riavere il corpo del figlio e le fu imposto di fare il funerale a Chistopol, Tatarstan, lontanissimo da Mosca.
LE CERTEZZE
Lo zar può ancora dormire sonni tranquilli al Cremlino. Il rischio maggiore lo ha passato con l’ammutinamento di Prigozhin (morto, ucciso, pure lui). C’è chi sostiene che anche Putin sia morto, e che colui che vediamo oggi farsi intervistare da Fox News o nelle arringhe e nei comizi a Mosca sia il suo sosia più bravo. E c’è chi, per esempio su Foreign Policy, scrive che Navalny era pericoloso per Putin perché anche lui era un revanchista, non un campione liberale, tanto che in Ucraina non lo amavano. E i tempi bui sono ancora più bui dopo la sepoltura.
Ultimo aggiornamento: Sabato 2 Marzo 2024, 15:13
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