Tornare a scuola e scoprire che tra gli studenti si percepisce meglio l'impatto della pandemia

Tornare a scuola e scoprire che tra gli studenti si percepisce meglio l'impatto della pandemia

di Marco Mottolese

Sono tornato a scuola. No, magari fossi tornato tra i banchi, in realtà sono entrato in una scuola perché – così ho capito – è tra gli studenti, dunque i ragazzi, che si percepisce meglio l’impatto della pandemia. E’ sabato mattina, nel cortile di una scuola romana si celebra una giornata speciale: una giovanissima studentessa anni fa perse la vita per una malattia e la scuola, per non dimenticarla, ogni anno, nel giorno del suo compleanno, organizza un festa in cui gli studenti si riuniscono nel suo ricordo per una mattina di serenità. Li osservo; c’è chi aspetta di essere premiato per il tema più interessante, chi gioca a pallone, chi, in piedi, osserva gli altri come per specchiarsi; nel frattempo i docenti, e il nonno della studentessa che non c’è più, seguono con solenne semplicità la scaletta della mattinata.

Mi seggo in un angolo, è una scuola media, dunque mi trovo in mezzo a quell’età della quale, crescendo, si perde un po’ traccia, perché non si è più bimbi ma non si è ancora grandi, la memoria archivia certamente ricordi, ma forse non del tutto indelebili in questa fase della vita che si nutre di sfumature mediane le quali, nel tempo, verranno trasformate in un ricordo vago, anche se a distanza apparentemente preciso. Le scuole medie sono un parcheggio mentale, si è attratti verso il futuro come in nessun’altra fase della vita ma lo si intuisce da soli che si è ancora piccoli, sottoposti a controllo genitoriale anche se spuntano baffetti ai maschi e le ragazzine conoscono le prime stagioni lunari. Li guardo con attenzione, il mio punto di osservazione mi permette di osservare senza essere scorto.

Quasi tutti indossano mascherine, eppure siamo all’aria aperta e il contrasto con gli adulti presenti mi fa pensare; infatti, svolgendosi l’evento nel cortile, gli adulti (probabilmente genitori, nonni, parenti e amici, anch’essi lì per celebrare la giornata) non sentono la necessità di indossare la mascherina mentre i ragazzi sì, compunti, serissimi, seduti a debita distanza, sembrano soldati della lotta al Covid, addestrati da un generale rigidissimo. E allora mi si rivela ciò che avevo in parte notato andando in giro, e cioè che il virus non ha segnato ogni generazione nella stessa maniera. Probabilmente non ce ne rendiamo conto, noi “grandi” quanto il passaggio devastante del Covid abbia inciso nelle menti e nella creazione del ricordo in questi pre-adolescenti.

In quelle vite, dal lockdown in poi, colpite dal timore di essere i principali untori - potendo essere veicoli del contagio senza il rischio di essere colpiti dalla malattia - è sbocciata la fastidiosa sensazione di non essere nel mirino del cecchino ma di poterlo involontariamente agevolare mentre fa fuoco verso coloro ai quali vuoi bene.

Deve essere uno spiacevole pensiero che forse mai hanno condiviso tra loro, perché troppo gravoso, ed è per questa ragione che non voglio classificarlo come trauma (anche se l’atteggiamento eccessivamente cautelativo verso sé stessi potrebbe raccontare questa storia) ma preferisco pensare ed osservare questi ragazzi come coloro che sentono inconsciamente il peso di rappresentare la generazione che, oltre ad aver imparato di più (e a caro prezzo) dal passaggio del virus, è quella che giocoforza deve sopravvivere per dare un senso alla parola f u t u r o . Fa caldissimo ma loro non si scompongono; è il momento in cui alcuni di essi devono parlare e nemmeno con il microfono davanti alla bocca hanno il coraggio di abbassare la mascherina; i docenti li osservano, non so capire se ammirati o dispiaciuti – all’aperto la mascherina non è obbligatoria da tempo- ma loro nulla, devono difendere la posizione che a suo tempo è stata loro imposta e ora che il peggio della guerra è passato sembrano ricordare quel soldato giapponese ritrovato nella giungla in cui – a distanza di trent’anni dalla fine della guerra – ancora si nascondeva dal nemico.

Il sole di mezzogiorno è diventato insopportabile, i ragazzi in piedi si stringono tra loro guardandosi intorno come a dire “si può fare”? Intravedo l’insorgere di una timida voglia di “rompere le righe” e tutto questo avviene con peculiare tranquillità, son pur sempre ragazzini, penso.

Solo dal campo di calcio che affianca il cortile, al momento di un gol che evidentemente risolve la partita, si ergono urla di gioia e intravedo da lontano la squadra vincente abbracciarsi e fare feste eccessive mimando quello che fanno i campioni dopo una rete, e allora penso che pian piano questo trauma passerà anche per loro, che la pandemia rimarrà un lontano ricordo che ha segnato per tutti i coetanei una fase della vita e che un giorno ai loro nipoti potranno dire: “ sai, c’era un tempo in cui non potevamo abbracciarci e dovevamo indossare una mascherina che copriva naso e bocca tutto il giorno, anche in classe, era dura ma necessario, fu così che salvammo la terra” .


Ultimo aggiornamento: Domenica 26 Settembre 2021, 20:41
© RIPRODUZIONE RISERVATA