Iran-Israele, la diplomazia della violenza placa soprattutto i fronti interni

Iran-Israele, la diplomazia della violenza placa soprattutto i fronti interni

di Greta Cristini

La calibrata controrappresaglia di Israele in territorio iraniano accompagnata dalla notizia che l’Iran non contempla un’ulteriore risposta segnala che, almeno per ora, la de-escalation è nell’interesse di entrambi i paesi. Dopo il 13 aprile, una nuova e più pericolosa equazione regola i rapporti fra Stato ebraico e Repubblica Islamica: è quella in cui nessuno dei rispettivi territori è davvero inviolabile e dove la logica della ritorsione equivalente (il cosiddetto “tit for tat”) è stata sdoganata. Al punto che secondo diversi analisti mediorientali, attacchi occasionali al territorio nemico nei momenti di massima tensione fra Tel Aviv e Teheran, potrebbero ora diventare la norma. Con l’attacco israeliano nel centro dell’Iran, a nord della città di Isfahan nei pressi dell’ottava base aerea dell’aeronautica iraniana a Shekari, si è quindi chiusa una nuova prima fase del conflitto israelo-iraniano, ovvero quella in cui entrambe le leadership dovevano dimostrare al rivale e al loro fronte interno di essere capaci e disposti a passare all’offensiva, a combattere direttamente l’uno contro l’altro.

 

Cambiamenti

Ma proprio perché la soglia di aggressività si è ormai drammaticamente innalzata, l’attacco iraniano del 13 aprile e quello israeliano di ieri valgono soprattutto come esempi di “diplomazia della violenza” in cui le due potenze regionali si scambiano messaggi a suon di missili e droni. Una lettura confermata anche da alcune indiscrezioni riportate da un funzionario israeliano che sotto anonimato ha precisato al Washington Post che l’operazione lampo israeliana nella notte di venerdì è «intesa a segnalare all’Iran che Israele ha la capacità di colpire all’interno del paese». Non di più. Una volontà reciprocata anche sul fronte iraniano: una fonte di intelligence regionale a conoscenza della potenziale reazione dell’Iran all’attacco israeliano avrebbe dichiarato alla Cnn che gli attacchi diretti da Stato a Stato tra i due nemici sono “finiti”.

Allontanarsi dal precipizio dell’escalation serve alle due parti anche per non distrarsi dalle rispettive e delicate questioni domestiche.

Il gabinetto di guerra israeliano, già alle prese con una situazione politica fragile in cui una società sempre più frammentata invoca le dimissioni del premier Netanyahu, vuole concentrarsi sull’operazione a Rafah, a lungo promessa e necessaria secondo Tel Aviv per distruggere definitivamente la minaccia di Hamas. Parallelamente, il governo israeliano deve pensare a come mettere in sicurezza il suo confine settentrionale interessato dagli scontri con Hezbollah. 80 mila cittadini sfollati premono per tornare nelle proprie case quanto prima.

Teheran, dalla sua, si sta avvicinando al momento più critico dalla sua rivoluzione di 45 anni fa: il sistema politico è alle prese con una transizione storica fra la prima e la seconda generazione. Da un lato quella emersa dalla rivoluzione del 1979 e che ancora esprime la leadership con la guida dell’ottantacinquenne Ali Khamenei, teocratica, ideologica e con un approccio pragmatico e di pazienza strategica volta ad evitare un confronto diretto con Israele. Dall’altro quella legata ai ranghi militari, all’industria e al commercio e con una visione più radicale, muscolare e aggressiva verso Israele e l’Occidente.

Ci sono insomma ragioni interne ed esterne sufficienti al momento affinché entrambi vogliano mettere un punto a questo capitolo del confronto. Per farlo hanno immaginato di dover convincere l’altro che la deterrenza è stata ripristinata. Almeno fino al prossimo episodio.


Ultimo aggiornamento: Sabato 20 Aprile 2024, 08:00
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