La politica succube dei superburocrati


di Alessandro Campi
La vicenda che ha portato alle dimissioni di Lupi suggerisce due osservazioni. La prima è che la politica italiana è succube di una burocrazia che sempre più sembra rappresentare un centro di potere autonomo e privo di responsabilità; l’altra che l’esperienza del governo di larghe intese è arrivata a un punto chiave e questo significa che potrebbe aprirsi una nuova fase politica. Ma andiamo con ordine e proviamo a spiegarci. La capacità della burocrazia di sopravvivere ai cambi di governo e di maggioranze politiche è un dato strutturale nella vita degli Stati moderni. Da un certo punto di vista ciò rappresenta una garanzia di continuità nell’azione amministrativa e nella gestione della cosa pubblica. Il burocrate indipendente e fedele allo Stato è anche una garanzia di libertà per il cittadino.



Ma nell’esperienza italiana recente, segnata dal discredito crescente che si è abbattuto sulla classe politica a tutti i livelli, dal centro alla periferia, l’autonomia della burocrazia si è risolta in qualcosa di diverso: nella creazione di un potere che non sembra rispondere ad alcuna direttiva superiore. Un potere che per di più non opera seguendo gli interessi generali della collettività, ma i propri e quelli di coloro che lo detengono per carriera. Ciò che più colpisce della vicenda Lupi (ma anche di altri casi analoghi) non è tanto l’intreccio tra politica e amministrazione, quanto la subordinazione della prima alla seconda. Il politico, insomma, sembra prendere ordini dal burocrate. Non ne segue tanto le indicazioni operative, quanto ne asseconda le decisioni e le scelte, limitandosi a spacciarle per proprie. Il politico magari sceglie un dirigente per affinità politica, ricorrendo allo spoil system, ma poi finisce per diventarne succubo.



La crisi di legittimità e di capacità operativa della politica è naturalmente la causa di questo processo, che ha portato pezzi consistenti dell’apparato pubblico italiano (specie ministeriale) ad intestarsi competenze e mansioni che semplicemente non dovrebbero competergli, sino a trasformare il proprio ruolo tecnico-gestionale in funzione direttiva e strategica. Un’inversione dei ruoli che ha raggiunto in Italia il suo culmine con l’esperienza del governo Monti. Quello fu per l’appunto un governo tecnico-burocratico, nato nel segno dell’emergenza economica e istituzionale, sotto il quale si crearono delle amministrazioni dello Stato politicamente autocefale: un diplomatico agli Esteri, un prefetto agli Interni, un ammiraglio alla Difesa, direttori generali e alti funzionari dei ministeri del Tesoro, dell’Ambiente e dell’Agricoltura alla guida politica dei medesimi.



Finita quella stagione non è evidentemente finita questa tendenza dell’alta dirigenza statale italiana a considerarsi, non solo inamovibile dal punto di vista delle carriere, ma nella condizione di orientare la politica in ogni sua scelta fondamentale: rallentandone le riforme quando non condivise nei contenuti, indirizzandone le decisioni secondo i propri interessi e orientamenti grazie, molto spesso, alla scarsa conoscenza tecnica e alla mancanza di visione strategica che molti ministri e governanti hanno spesso dimostrato in questi anni. Il recupero da parte della politica delle sue prerogative, che sembra essere uno degli obiettivi di Renzi, è non a caso uno di quelli che il governo in carica più fatica a conseguire.



Incidenti come quello che è costato il posto a Lupi rappresentano probabilmente una buona occasione per riportare i vertici dell’apparato pubblico dello Stato alle loro mansioni ordinarie. Ma perché ciò accada bisogna capire cosa ne sarà di questo governo. Veniamo così alla seconda osservazione. Quello nato nell’aprile 2013 fu un governo di larghe intese, divenute più strette dopo che Berlusconi decise di sfilarsi dalla maggioranza a novembre. Il Nuovo centrodestra di Alfano nacque all’epoca proprio con l’obiettivo di salvare esecutivo e legislatura. Con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi, nel febbraio 2014, le intese tornarono nei fatti larghe: alla pattuglia dei ministri, viceministri e sottosegretari dell’Ncd si aggiunse infatti, poco dopo, il Patto del Nazareno, con Forza Italia impegnata ad assicurare una sorta di sostegno parlamentare esterno all’esecutivo.



Il quadro è drasticamente cambiato con l’elezione del nuovo Capo dello Stato, secondo una procedura che ha spinto il Cavaliere, consideratosi tradito da Renzi, a rompere ogni accordo politico-parlamentare con quest’ultimo. Le intese sono tornate così ad essere strette, vale a dire limitate all’alleanza, sempre più asimmetrica, tra un Pd pigliatutto e un Ncd incapace di intestarsi una qualunque battaglia che possa giustificare, agli occhi dei suoi elettori, la propria presenza nel governo. Con le dimissioni di Lupi, vale a dire con la consegna forzata a Renzi, nell’anno dell’Expo milanese, di un ministero strategico quale quello delle infrastrutture e dei lavori pubblici, le intese si sono ulteriormente assottigliate.



Si comprendono dunque i malumori crescenti in casa Ncd, con molti suoi esponenti che ormai si chiedono quali spazi d’azione reale e quale capacità d’influenza abbia il partito all’interno di un esecutivo nel quale solo Renzi fa il bello e cattivo tempo. E che si chiedono altresì quale convenienza ci sia a mantenere, nel nome della responsabilità o per timore di dover andare al voto anticipato, un’alleanza di governo che elettoralmente – come si è visto sin qui e come confermano i sondaggi – non porta alcun vantaggio. Prenderà Alfano l’occasione di questa difficile contingenza per spiegare finalmente che cosa l’Ncd intende essere o diventare, quali obiettivi strategici vuole perseguire e come pensa, decidendo di restare al governo, di evitare che Renzi si comporti con lui e il suo partito come il gatto col topo?
Ultimo aggiornamento: Sabato 21 Marzo 2015, 00:13