Italia campione d'Europa, siamo un modello: mai più un Paese in difesa

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di Mario Ajello
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L'Italia c'è. Potevamo vincere o perdere e abbiamo vinto alla grande, e comunque l'Europeo ci consegna un'idea di Paese, attraverso la sua Nazionale, che è forte di un'autostima maturata sul campo e non solo sul campo di calcio, e occhio a come hanno giocato in queste notti magiche gli azzurri del Mancio. Non più arroccati in difesa dopo il golletto, non più all'italiana con catenaccio più contropiede, ma con pressing e ripartenze, dentro la metà campo avversaria, all'attacco, a spingere con cuore, cervello e polpacci. Un'Italia nuova, ecco, che fatica e viene ripagata. Quella del pallone e quella dei summit internazionali (Draghi in Cornovaglia dava lezioni di investimenti e crescita un mese fa tra l'ammirazione della Merkel e degli altri, Macron ha ricevuto Mattarella a Parigi e ha parlato di asse europeo tra Italia e Francia mentre la Germania ha Frau Angela in uscita). Quella della politica che sembra meno paludosa e più decidente o decisionista. Quella di uno spirito sociale che dopo le sofferenze da Covid si sente temprato e di un senso di patria non più timido e balbettante ma riconosciuto anche da fuori come un vincolo più forte. E guarda caso nessuno parla più di Italietta, nessuno indulge ancora sulla trinità pizza-mafia-mandolino come riassunto (immaginario e ingiusto) del nostro Paese. E semmai c'è un tridente rispettato nel mondo, Mattarella-Draghi-Mancio, e in cui l'Europa sa riconoscersi.

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I MORALISTI DA BAR
Sì, Italiona e non Italietta. Quella che ha trovato nell'Europeo la sua culla e il suo volto. Ed è un lavoro di crescita, quello fatto finora, che non si perderà né calcisticamente né per quanto riguarda l'impatto nelle mentalità e nei comportamenti degli italiani. Perché ormai abbiamo voltato pagina quest'estate e l'autunno avrà le sue difficoltà - dice niente la fine del divieto di licenziamenti? ma c'è un contesto, quello riassunto dall'eccellenza della squadra di Mancini ed estendibile oltre il pallone che racconta la fine del senso d'inferiorità del sistema Italia. E basta con quei «moralisti da caffé o da farmacia - così li chiamava Benedetto Croce nel 1912 - che stanno sempre ad annunciare, da quando esiste l'Italia e finché l'Italia esisterà cioè sempre, che questa nazione sta per disintegrarsi politicamente o per fallire economicamente o per dissolversi nella corruttela e in altri disastri».
E' il momento di avere la testa alta perché la testa c'è, nonostante i dolori del virus e le debolezze che vengono da lontano.

Il calcio è quello che ci ha detto che dobbiamo sperare e lottare. Il Recovery Fund è il nuovo pallone da mettere in gol e le capacità per spingerlo in rete ci sono tutte. Grazie Mancini e grazie azzurri insomma per averci ricordato che cosa siamo e che cosa possiamo essere: gente attrezzata più di altri alle nuove sfide. Nel corso delle notti dell'Europeo, e anche dei giorni che lo hanno accompagnato e preceduto, abbiamo imparato l'arte di crescere con una di quelle improvvise trasformazioni che cambiano o promettono di cambiare il carattere delle persone e dei popoli. Lo notano pure i vescovi in un tweet della Cei: «Dietro la squadra azzurra c'è un intero Paese che non molla».


LA FINE DEL PURTROPPO
Possiamo arrivare, adesso più che mai in epoca post-ideologica, a sentirci italiani alla Pessina o alla Chiesa, carichi di slancio, stantuffi inarrestabili, cocciuti creatori di un gioco diverso. Spegniamo la famosa canzone di Giorgio Gaber («Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono») per sentirci italiani o nuovi italiani senza se e senza ma. L'identità nazionale, sulla scorta di successi e di risvegli che ci ha fatto campioni può essere finalmente vissuta senza complessi, senza retorica, in maniera aperta, naturale, semplice. Quella semplicità che è data dal sentirsi sicuri di sé e non contempla il «purtroppo».


Ultimo aggiornamento: Lunedì 12 Luglio 2021, 06:44

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