Addio Kobe Bryant. Perché la sua morte ha segnato un'intera generazione

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di Domenico Zurlo
La scomparsa di Kobe Bryant, morto domenica 26 gennaio in un incidente in elicottero, ha sconvolto tutto il mondo, e non soltanto gli appassionati di sport in generale o di pallacanestro in particolare. In tantissimi, sui social network, hanno espresso il loro dolore, da colleghi ed ex colleghi del parquet, a personaggi di ogni livello, dal presidente americano Donald Trump all'ex presidente Barack Obama. Kobe, oltre ad essere una leggenda della NBA, era l'idolo di una generazione, un simbolo che va al di là dello sport, come altri atleti del passato e del presente.

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UN SIMBOLO Per spiegare perché la morte di Kobe abbia sconvolto in tal modo un'intera generazione - quella di chi è nato tra la fine degli anni '70 e la fine degli anni '80, se non oltre - non basterebbe elencare le sue innumerevoli gesta. Una carriera lunga un ventennio, iniziata nel 1996 quando aveva appena 18 anni, finita nel 2016 dopo un lungo farewell tour condito dagli applausi di quei tifosi che a lungo lo hanno fischiato e odiato, come si odiano i vincenti.

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Fin dagli inizi, Kobe non è mai stato un atleta come tutti gli altri. Paragonato dal primo giorno a Michael Jordan, incrociò quest'ultimo nei suoi primi due anni da professionista: l'ideale passaggio di consegne nell'All Star Game del 1998, l'ultimo nella carriera di MJ, in cui un 19enne Kobe tentò di rubare la scena al 35enne Jordan, che vinse comunque il premio di MVP. In comune con Michael, Bryant aveva l'ossessione per il gioco, la voglia di migliorarsi ogni giorno col lavoro per avvicinarsi alla perfezione, quella voglia che nel 2009 a 31 anni, dopo il quarto titolo NBA conquistato con i Lakers, lo portò a rivolgersi ad Hakeem Olajuwon per migliorare il suo gioco spalle a canestro.
 

KOBE E MJ Jordan, come e forse più di Kobe, era un underdog: scartato dalla squadra del suo liceo ad appena 15 anni per tale Leroy Smith, usò quell'esclusione per automotivarsi a migliorare, per inseguire livelli sempre più alti. Al draft NBA del 1984 fu scelto dai Chicago Bulls alla numero 3, dietro al già citato Olajuwon e a Sam Bowie (uno degli abbagli più incredibili della storia dello sport): per conquistare la NBA ci mise pochi mesi, sebbene il suo talento unito al suo atletismo, che hanno cambiato radicalmente il basket mondiale, siano stati macchiati per i primi anni da un inspiegabile scetticismo, fino al primo trionfo, arrivato alla sua settima stagione nella Lega. Da allora non riuscì più a fermarsi, vincendo sei campionati su sette.

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DAL LICEO ALLA NBA L'iniziale scetticismo sul già famoso Kobe invece, nel 1996, nacque più dalla sua giovane età che non dal suo indiscutibile talento, o dalla sua prorompente personalità: dopo Kevin Garnett, Bryant fu tra i primi a fare il salto dalla high school ai professionisti senza passare per il college, considerato un passaggio obbligato per perfezionare fondamentali e tecnica. Nella sua mente, Kobe non aveva poi un gran bisogno di migliorare nei fondamentali: quelli li aveva già imparati in Italia, quando tra i 6 e i 13 anni aveva accompagnato suo padre Joe, professionista con le maglie di Reggio Emilia, Pistoia e Rieti.
Nel 1996 quando Byant sbarcò nella NBA, scelto alla numero 13 dagli Charlotte Hornets e girato subito ai Lakers in cambio di Vlade Divac, non era uno sconosciuto: suo padre era Jelly Bean, nella NBA tra Philadelphia, San Diego e Houston per otto stagioni prima di continuare la sua carriera in Italia. Dopo averlo provinato i Lakers ne furono entusiasti, ma probabilmente non si aspettavano nemmeno loro l'impatto che avrebbe avuto in California: da rookie vinse la gara delle schiacciate all'All Star Game e si conquistò la fiducia di coach Del Harris, anche nei playoff, quando sbagliò tre tiri decisivi che costarono l'eliminazione contro gli Utah Jazz.
 

MOTIVAZIONI Quegli errori, e le polemiche che ne conseguirono - con qualche compagno di squadra come Nick Van Exel che ebbe da ridire sull'eccessiva fiducia data ad un ragazzino, lo motivarono ancora di più. Aveva appena 21 anni quando da secondo violino dopo Shaquille O'Neal trascinò i Lakers nelle Finals contro gli Indiana Pacers, a 23 anni aveva già vinto tre campionati.
 

Dopo l'addio di Shaq, qualche stagione di troppo senza vittorie contribuirono a crearne la leggenda: è in quegli anni che, pur senza vincere nulla con i Lakers, Kobe entra nella storia per la seconda miglior prestazione nella storia della NBA, con 81 punti segnati contro i Toronto Raptors (gennaio 2006).
 

Quelle troppe stagioni senza vittorie lo motivarono ancor di più: il ritorno al vertice di Los Angeles e il nuovo trionfo allo Staples Center arrivò nel 2009, con altri due titoli vinti al fianco di Pau Gasol, che ieri ne ha salutato la scomparsa con commozione, chiamandolo «fratello».
Per anni Kobe ha rappresentato l'atleta individualista per eccezione, l'uomo capace di fare canestro quando voleva e come voleva, a prescindere dal difensore, dal compagno, dall'allenatore in panchina o dai fischi dei tifosi in tribuna. Fischi che finivano per esaltarlo, aumentando la competitività e elevando ancor più il suo ego: memorabile, a fine carriera, lo spot che la Nike gli dedicò, in cui tifosi e avversari cantano la loro tristezza per il suo ritiro, perché «non riesco a smettere di odiarti».
 

NOTTI INSONNI Una intera generazione lo ha amato e ammirato per vent'anni, gustandosi le sue interviste in italiano quasi perfetto, restando svegli in piena notte per vederlo battere Indiana, Philadelphia, New Jersey, Orlando, e infine gli odiati Boston Celtics, la cui storica rivalità con i Lakers ha contribuito ad aumentare l'hype di quella con lo stesso Kobe. Non è un caso se nel già citato spot Nike, a cantare come «il mio odio cresceva sempre più forte», fosse quel Paul Pierce che lo aveva epicamente sconfitto nel 2008, per poi soccombere due anni dopo.
 

Chi ha amato Kobe non lo ha fatto solo perché ha vinto dei titoli, lo ha fatto perché in quel ragazzone di meno di due metri che sfidava e superava i suoi limiti, vedeva l'erede del più grande di tutti (Jordan appunto), vedeva l'uomo capace di indossare la sua «angry face» e umiliare i suoi avversari. Per vent'anni le nostre notti insonni hanno visto protagonisti le sue movenze, i suoi gesti tecnici e atletici, ma soprattutto la sua passione, espressa alla perfezione nella sua celebre lettera d'addio alla pallacanestro (che nel 2018 gli ha fatto anche vincere un Oscar). Nelle parole di un uomo che soffre perché costretto a lasciare ciò che più ama al mondo, ci siamo riconosciuti tutti: perché Kobe Bean Bryant è stato più di un eroe e più di una leggenda, e che da ieri nei nostri cuori è diventato immortale.
Ultimo aggiornamento: Lunedì 27 Gennaio 2020, 19:31
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