Suburra, Piotta: «La mia colonna sonora rap per una Roma sempre più cupa»

Piotta: «Suburra, la mia colonna sonora rap per una Roma sempre più cupa»

di Claudio Fabretti

ROMA - «Un suono scuro, drammatico, che racconta una Roma sempre più cupa e malata». È il fondale su cui Tommaso Zanello alias Piotta ha impresso le musiche per la terza stagione di “Suburra – La serie”. Dopo aver donato, con la sua “7 vizi Capitale”, la sigla alla prima stagione e aver collaborato attraverso la sua etichetta La Grande Onda alla seconda, il rapper romano firma per la prima volta per intero una colonna sonora, al servizio della produzione Netflix.

Lavorare sulle immagini ha cambiato il suo approccio?
«È stata una prova complessa, non si trattava di commentare una singola scena, ma l’intera serie, spaziando quindi dai registri più vari: triste, malinconico, solare. Questo mi ha permesso di metterci tutti i miei ingredienti, dal rap al cantautorato, fino a certe sfumature folk, come per quei suoni un po’ mediorientali che accompagnano le vicende degli Anacleti. Ne è uscita una sintesi della mia evoluzione di questi anni».


Con un brano per ogni puntata, ognuno dedicato a uno dei protagonisti…
«Sì, è come se ogni canzone avesse un suo videoclip, realizzato per di più con i mezzi straordinari messi a disposizione da una produzione così importante».

Poi c’è anche il videoclip di “La Giostra”, girato al Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, a Roma.
«Già, un luogo che amo e che rischia di essere sgombrato. Ma è occupato solo da famiglie: italiani, sudamericani, rom. E con 800 opere di artisti che hanno usato le mura dell’edificio abbandonato.

Un luogo di arte e convivenza pacifica. Spero che il Comune trovi una soluzione per salvarlo».

“Suburra” va in 190 paesi. Ha già ricevuto reazioni dall’estero?
«Sì, molte, alcune anche in lingue che non sono riuscito a tradurre… Mi ha colpito però il fatto che in tanti, malgrado la lontananza geografica e culturale, abbiano colto lo spirito delle parole e della musica, come fosse davvero un linguaggio universale».


In quali zone sta piacendo di più?
«Soprattutto nei paesi latini, forse perché piace quel mix di Chiesa e crimine... Non a caso, ho inciso il disco su Altafonte, una multinazionale spagnola molto forte nel mondo latino».

Al di là dei personaggi, la vera protagonista della serie è Roma. Lei canta che è anche uno “state of mind”, come New York. Che tipo di città ne esce fuori?
«Una città desolata, che ha smarrito la sua anima. Una città che forse disturba meno, non urla, non sbraita. Come se vivesse una quiete prima della tempesta».


Una città che in questi giorni ha perso uno dei suoi spiriti guida. Che ricordo ha di Gigi Proietti?
«Un artista straordinario. Una figura amata, familiare, quasi uno zio per me, visto che anche mio padre ne era un grande fan e ne ricordava in parte la fisicità. Aveva un’eleganza che ti conquistava. Ricordo che a Stracult facevo una miniserie ironica, “Il maresciallo Spacca”, chiaramente ispirata al suo Rocca. Gli chiesi tramite i Manetti se si potesse organizzare un incontro tra i due personaggi. Lui replicò: “Ora meglio di no”. Gli pareva eccessivo. E aveva ragione. Un ricordo che ne esalta la professionalità».
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Ultimo aggiornamento: Venerdì 6 Novembre 2020, 12:22
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